A novembre dello scorso anno si è tenuta la giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
Purtroppo abbiamo assistito alle solite sfilate con i soliti cartelloni e slogan urlati dalle partecipanti; abbiamo ascoltato i soliti comizi con frasi scontate e qualunquiste; abbiamo visto le solite trasmissioni dove psicologi, sociologi, forze dell’ordine, opinionisti e politici di varie estrazioni hanno detto le solite frasi che nessun effetto hanno mai prodotto sino ad oggi.
Abbiamo anche ascoltato la voce delle massime autorità religiose che nulla hanno aggiunto a ciò che già si sapeva.
Ma nessuno ha detto la frase che avrei voluto sentir dire:
Ishvara Pranidhana, abbandono al volere divino, che non è un arrendersi ma un accettare.
Parlare di “fato” avrebbe sicuramente sollevato un mare di reazioni prevalentemente negative per chi cerca il consenso politico e sociale; ma è la realtà che quotidianamente viviamo e che ogni praticante di yoga, che ogni insegnante di yoga dovrebbe conoscere ed accettare poiché è contenuta negli Yoga Sutra di Patanjali, quinto “nyama”, norme di comportamento morale.
E come se non bastasse, nella Bhagavad Gita, altro testo sacro ai praticanti uno yoga che non sia solo ginnastica dolce, nel capitolo undicesimo, la trasfigurazione del Signore, viene chiaramente detto che è Lui che uccide chi e quando vuole; in particolare nel chiarissimo sutra 33:
“…..Da me soltanto essi sono già da gran tempo stati uccisi. Sii tu soltanto lo strumento…”
L’uccisore è solo lo strumento della volontà divina che tutto decide.
E con questo non si vuole giustificare chi violenta, stupra o uccide; ma solo attirare l’attenzione sul ruolo che il fato, il volere divino gioca nella nostra esistenza.
Questo vale per tutti i tipi di violenza, dai più insignificanti fino agli omicidi più ignobili come quelli delle madri che uccidono i figli o dei figli che uccidono i genitori.
A volte, guardando i telegiornali, leggendo la stampa mi vengono in mente i versetti del Vangelo di Matteo (10-21): “il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire”.
Segni che preludono la fine del mondo o di un eone o di un manvantara.
A parte queste considerazioni, viviamo sicuramente in un periodo di violenze ingiustificate.
Altra frase che nessuno ha detto è quello derivante da un detto ermetico: “ogni effetto ha la sua causa”, concetto espresso anche nella Samkhya Karika, sutra 9, in cui si aggiunge che la causa deve essere adeguatamente alimentata, come un seme per produrre la pianta deve essere regolarmente innaffiato.
Quale azione, o serie di azioni, ha provocato la violenza inaudita ed irragionevole?
Qual’è la causa di tanta crudeltà, in particolare nei confronti delle donne?
Come abbiamo alimentato, consapevolmente o inconsapevolmente, questa causa?
Azione, causa ed alimento dipendono tutti dalle mente; ed il principio del mentalismo domina fra i tanti principi dell’insegnamento ermetico, dalla mente divina alla mente umana.
Ma cos’è la mente e come si educa la mente?
Si parla tanto di mente ma se ne conosce poco; ed il suo reale significato è quanto mai vago.
Non può essere confusa con il cervello ed infatti è oggetto di studio della psichiatria e di tutte le scienze che cominciano con il prefisso psi; mentre il cervello e le sue attività cerebrali sono oggetto di studio della neurologia e delle neuroscienze.
Potrebbe essere definita come somma delle sue espressioni funzionali: pensiero, memoria, affettività, passioni, coscienza; ma quando andiamo ad analizzare queste parole troviamo il loro significato molto complesso e contorto.
Per cui preferisco lasciar perdere la scienza occidentale, ancora giustamente alla ricerca di elementi concreti di risposta, ricordando però che la mente spesso ci mente, ci inganna, e dedicarmi alla disanima che della mente fa la scienza orientale, la scienza dello yoga ed in particolare la filosofia samkya messa a punto dal saggio Kapila vissuto nel VI° sec. A.C., sulla base di spunti ed elementi che risalgono a periodi ancora più antichi, vedici e tantrici, ben sintetizzati nel testo prima citato.
L’origine divina della mente non viene messa in discussione; è accettata e discende dal processo creativo: da Brahma, a Mahat Tattwa, l’intelligenza cosmica, dalla quale emerge l’intelligenza individuale che rappresenta la mente, nel suo significato più ampio.
La mente, a sua volta, si compone di quattro parti:
Ahamkara – l’io, o il senso dell’io individuale, separativo, l’Ego.
Manas – la mente raziocinante.
Citta – il magazzino dei ricordi.
Buddhi – la mente intuitiva.
Manca la mente istintiva semplicemente perché si parla di esseri umani e la mente istintiva appartiene agli animali.
Il processo mentale funziona in modo semplice e meccanico: di fronte ad un problema di qualsiasi natura manas, la mente raziocinante, raccoglie gli elementi per decidere andandoli a cercare nel magazzino dei ricordi, che ci portiamo dietro dalle precedenti incarnazioni attraverso il DNA e la memoria cromosomica, e che viene alimentato costantemente dai cinque sensi, in questa vita.
Sulla base delle informazioni raccolte e delle esperienze maturate in questa che in altre vite, elabora diverse soluzioni che sottopone all’Ego, colui che percepisce e decide.
L’Ego è il “personaggio” che nel processo decisionale è spinto dalla sua natura intrinseca – dai guna – ovvero dal suo carattere che può essere saggio, combattivo o ottuso.
Nel processo decisionale può intervenire anche buddhi, la mente intuitiva, che alcuni hanno naturalmente attiva mentre altri devono svilupparla con appositi esercizi.
Cerchiamo di capire ora cosa succede in un caso di violenza e come funziona la mente, tenendo presente che nel giro di pochi attimi possiamo passare dalla saggezza all’ottusità per motivi imprevedibili.
Mi pestano un piede; se sono in fase di saggezza lascerò correre; se sono in fase combattiva reagirò con una frase; se sono nella fase di ottusità risponderò con un’offesa uguale, innescando una serie di azioni/reazioni che spesso sfugge di mano e porta a violenze impensabili.
Ed è quello che succede nei casi riportati dalle cronache e non.
Persone naturalmente colte, educate, magari di indole pacifica, ad un certo punto esplodono e fanno gesti imperdonabili: di fronte ad una causa reagiscono con effetti imprevedibili.
Questi effetti sono peraltro prevedibili quando ci troviamo di fronte a persone naturalmente combattive o violente.
Come è possibile evitare questa catena di reazioni?
La soluzione è semplice a dirsi ma complicata nella sua attuazione.
Bisogna educare la mente nel suo complesso, osservando e divenendo i padroni del processo mentale.
E solo lo yoga, nel suo percorso globale, è in grado di farlo.
I primi due versi degli Yoga Sutra di Patanjali ci dicono che lo yoga è una disciplina che ha come obiettivo di limitare le fluttuazioni della mente e nei suoi otto gradini troviamo tutti gli strumenti per controllarla in ogni sua manifestazione.
Auto introspezione, conoscere chi siamo, osservare come funziona la mente umana, trasformarla in uno strumento per accedere alle conoscenze superiori: questi sono gli obiettivi dello yoga e del tantra, non il benessere fisico e psichico.
Imparare ad osservarsi in ogni momento della giornata, guardare come funziona la nostra mente durante il processo di meditazione, in particolare nella fase di pratyahara – il quinto asthanga degli Yoga Sutra – essere consapevoli dell’attività incessante dei sensi, di quanto rumore, di quanto “chiacchericcio”, di quanto lavoro c’è nella nostra testa, che sviluppa ininterrottamente fantasie ed idee basate sul nulla, potrebbe educare le persone a riflettere prima di agire, a non gonfiare inutilmente cause inesistenti, a bloccare prima che nascano effetti indesiderati e deleteri.
Abbiamo scritto in un precedente articolo su questa rivista che in Italia ci sono centinaia di centri yoga e migliaia di praticanti, prevalentemente donne, cui si stanno aggiungendo, in questi ultimi anni, parecchi uomini.
Basterebbe che gli istruttori di questi centri orientassero le loro lezioni sull’auto introspezione, sull’osservazione del corpo che pratica le asana, che controlla il respiro, e della mente che giudica come vengono eseguiti gli esercizi, mentre osserva gli altri partecipanti ed ascolta le istruzioni dell’insegnante di yoga per fare un primo passo verso una maggiore consapevolezza di se stessi e del proprio lavoro mentale.
Basterebbe che la pratica della concentrazione e della meditazione yogica, antica, tradizionale, venisse promossa con maggior convinzione, senza lascarsi distrarre da tecniche meditativa moderne che traggono la loro origine più dalla psicologia che dallo yoga, per diventare più obiettivi, più distaccati, più sereni nel prendere le proprie decisioni.
La pratica meditativa correttamente impostata aumenta sattwa, la saggezza, riducendo gli effetti di tamas, l’ottusità, e rallentando l’attività oscillatoria di rajas, l’azione fra tamas e sattwa.
E questo ci consentirebbe di applicare la legge di trasmutazione, di trasformare consapevolmente l’odio in amore; quell’amore che esisteva all’inizio della relazione e che inconsapevolmente, e mal alimentato, si è trasformato in odio.
Odio e amore sembrerebbero due cose diametralmente opposte, completamente diverse, inconciliabili; ma se riflettiamo un attimo troviamo che sono i due poli opposti della stessa cosa.
Esistono gradi di odio e di amore e c’è un punto medio in cui l’uno si trasforma nell’altro e viceversa.
Le meditazione, l’auto osservazione e l’autoconoscenza ci portano a trovare questo punto di trasmutazione, a diventarne padroni ed a gestirlo.
Conquistando la capacità di trasmutare uno stato mentale in un altro, nell’ambito della stessa categoria, il sentimento, si eviterebbero tante tragedie.
Consapevoli di questa certezza dobbiamo divulgare lo yoga a tutti i livelli ed in tutti i settori, riportandolo però ai suoi valori originari, orientati a sviluppare il processo mentale consapevole per conoscere prima di tutto se stessi – l’aspetto fisico – e poi il divino – l’aspetto metafisico.
Hari Om
Swami Virananda
virananda@centroyogasatyananda.it