Essere in un gruppo o in spazi animati da condivisioni comunitarie è qualcosa di naturale e potenzialmente gravido di vitalità e calore umano, ma può non essere sempre un’esperienza facile per tutti: nonostante questo… Sperimentare ambienti relazionali differenti da quelli considerati “normali“ come la famiglia, la scuola e il lavoro, può permetterci di riconoscere parti nuove della nostrà personalità e maturare consapevolezza rispetto al potenziale umano che incarniamo, oltre a mettere in luce e permettere di smascherare le forme di oppressione sistemica che limitano la nostra libertà.

Personalmente, amo il senso di comunità, la profonda solidarietà e l’interezza festosa che sento oltre l’ego, quando mi apro allo sconosciuto che va oltre il mio corpo. Tuttavia a livello inconscio o più o meno esplicito, per qualcuno essere in relazione può essere percepito come molto pericoloso.

Adulti che hanno vissuto la propria infanzia al fianco di figure di riferimento giudicanti, manipolatorie o abusive possono tentare di proteggersi dal riemergere del dolore e della paura provata in passato, inserendosi in strutture fortemente gerarchiche; o portare involontariamente atteggiamenti vittimistici, coercitivi o manipolatori all’interno di ambienti dedicati allo sviluppo di relazioni empatiche o suppostamente liberati.

Noi

Insieme… Animali sociali… Sciami, banchi, greggi, branchi… O altri esseri viventi, boschi, radure, praterie… Perfino ife, batteri, virus, cellule… O ancora energia, vibrazione, elementi, nuvole, fuochi, terre o venti. Luce, suono, forma, spazio…

Noi“: una parola, un’idea che può alludere ad una vicinanza intima, preverbale, un anelito vitale estraneo al calcolo, alla separazione, all’isolamento.

O ancora, un sottile gioco di potere, un’occasione di manipolazione, un sacrificio chiesto in nome di una missione, un logo, una bandiera, un numero, una nazione…

Cosa vuol dire comunità per te?

 

Noi. Insieme. Della qualità del fluire, radicate in Terra e libere come l’acqua, oltre i vasti cieli del non sapere, della fiducia, dell’ascolto, della reciprocità trasformativa. Un flusso non filtrato dalla ragione, più affine all’Essere che all’avere.

Tutto scorre, è in continuo, perpetuo cambiamento e forse, come affermava Eraclito, non potremmo mai entrare nello stesso fiume… Ma per far sì che tale cambiamento continuo sia un passaggio dalla rigidità e dalla reattività della paura, al flusso della meraviglia e dell’imprevedibile in cui entriamo quando non siamo in stato di sopravvivenza, non è sufficente tra le umane e gli umani, che solo i soggetti varino i loro modi, le relazioni, i bisogni e i comportamenti.

Alcuni archetipi ereditati ormai da secoli e imposti dalle economie di guerra a livello planetario, cristallizzano le possibilità coevolutive della nostra specie, altamente efficente nel devastare i territori in nome del progresso, distorcere equilibri millenari e spingere numerose altre forme di vita all’estinzione.

Potremmo essere già succubi o, solo momentaneamente sedotti, dagli attuali modelli relazionali inorganici, efficaci nel diffondere la deumanizzazione iniziata dal capitalismo industriale nell’Ottocento, imposta con le due Guerre Mondiali, le ricostruzioni, le voraci leggi del mercato nel Novecento e oggi servita con il nome di transizione ecologica, tingendo astutamente di verde la mutazione tecnologica in atto.

Ma la mediazione delle relazioni attraverso la freddezza del tocco sul vetro di uno schermo o la riduzione a codice della nostra esistenza, rendono ancora più importante comprendere come le culture influenzino la vita sul pianeta.

In questo scritto mi ispiro al vecchio testo “From Dismantling Racism: A Workbook for Social Change Groups“, di Kenneth Jones e Tema Okun del 2001, iniziando una prima sommaria opera di smascheramento delle dinamiche che sotto gli occhi di tutti perpetuano le forme di relazione originate dal patriarcato, dalle culture fondate sulla dominanza, sul privilegio, sull’archetipo della guerra e del capitalismo.

 

Culture tossiche… Dai veleni agli antidoti

  • Invisibilizzazione

  • Perfezionismo

  • Senso di urgenza

  • Frammentazione

  • Difensivismo

  • Quantità rispetto alla qualità

  • Il culto della parola scritta

  • Paternalismo

  • Visione disgiuntiva, pensiero o questo/ o quello

  • Accumulo di potere

  • Paura del conflitto aperto

  • Individualismo

  • Il progresso è divenire più grandi, di più

  • Obiettività

  • Diritto al comfort

  • Colonizzazione tecnologica e digitale

Le culture possono essere estremamente condizionanti poichè sono spesso onnipervasive e allo stesso tempo date per scontate: possono portare a degli automatismi molto pericolosi e difficili da riconoscere, per questo necessitiamo spesso di dare loro un nome o identificarle. Alcune delle caratteristiche tossiche elencate in questo articolo possono essere dannose perchè sono spesso accettate acriticamente come norme e standard di base, senza essere scelte intenzionalmente dai gruppi. Anche realtà che abbracciano teorie basate sull’autorganizzazione orizzontale o sulla critica al dominio e alle gerarchie autoritarie, potrebbero non essere immuni da queste caratteristiche, poichè esse fanno parte delle modalità assunte per sopravvivenza a livello neurofisiologico dai nostri corpi, da quelli dei nostri avi educati e cresciuti in ambienti basati sulla gerarchia e la competizione, piuttosto che sulla liberta’ di esplorare i propri talenti condividendone i frutti per il bene comune.

Di seguito alcune tracce per le presenti e future generazioni di innovatrici che intendano risanare le proprie vite dai residui tossici del passato:

 

– Invisibilizzazione

Sempre le stesse persone prendono la parola, fanno lunghi monologhi togliendo lo spazio ad altre con la scusa di essere più intelligenti o preparate.

 

Molto spesso queste persone sono uomini bianchi non diversamente abili, in competizione tra loro o donne che per reggere alla velocità e alla pressione delle discussioni hanno introiettato la capacità di prendere lo spazio, conquistare la ribalta.

 

Le persone con caratteristiche o sensibilità non egemoniche tendono a scomparire, non avere tempo ne ascolto. Chi ha tempi di elaborazione più umani perchè sente, osserva i propri impulsi ed emozioni, invece che relegare la propria esperienza al solo pensiero, viene sottovalutato o considerato inferiore, incapace, perdente.

Antidoti: favorire un clima di libera espressione, riconoscere il valore di ogni singola voce, accogliere i silenzi come spazi di presenza ed integrazione, osservare e far notare con gentilezza e fermezza se qualcuno interviene continuamente o monopolizza il dialogo. Creare momenti di scambio empatico e dinamiche emergenti in piccoli gruppi in cui anche chi ha difficoltà a parlare in pubblico abbia la possibilità di trovare l’intimità necessaria per esprimersi. Eventualmente creare spazi protetti in cui in base alle tematiche affrontate e alle categorie di oppressione coinvolte si possano elaborare le esperienze prima in gruppi non misti. Le persone più esposte alle categorie di oppressione in modo intersezionale abbiano ulteriori spazi sicuri di elaborazione e di intervento per trasformare le sensibilità ferite in campi radicali di coscienza comunitaria. Non limitare il dialogo ai momenti assembleari ma espanderlo agli spazi di festa, gioco, cucina, viaggio se questo risulta comunque leggero e non invadente.

– Perfezionismo

Scarso apprezzamento espresso tra le persone per l’attività o il percorso che le altre stanno facendo; la valorizzazione che viene espressa solitamente è rivolta a coloro che comunque ottengono risultati misurabili e questi ottengono usualmente la maggior parte del merito.

 

Più comune è sottolineare come la persona o la sua attività siano inadeguati o ancora più comune, parlare con gli altri delle inadeguatezze di una persona o del suo lavoro senza mai parlargli direttamente.

 

Gli errori sono visti come personali, cioè si riflettono in modo negativo sulla persona che li commette invece di essere visti per quello che sono — errori.

 

Sbagliare è confuso con “essere sbagliati“. Si dedica poco tempo, energia o risorse alla riflessione o all’identificazione delle lezioni apprese che possono migliorare la pratica, in altre parole, poco o nessun apprendimento dagli errori.

 

Tendenza a identificare ciò che è sbagliato; poca capacità di identificare, nominare e apprezzare ciò che è generativo.

Antidoti: sviluppare una cultura della valorizzazione, in cui la comunità prende tempo per assicurarsi che il lavoro e gli sforzi delle persone siano apprezzati; sviluppare un senso comune di apprendimento, in cui ci si aspetta che tutti commettano errori e questi errori offrano opportunità di approfondimento; creare un ambiente in cui le persone possano riconoscere che gli errori a volte portano a risvolti positivi o inaspettati e dunque nuovi rispetto al previsto; separare la persona dall’errore; quando offri un feedback, parla sempre delle cose che sono andate bene prima di offrire critiche; chiedi alle persone di offrire suggerimenti specifici su come esprimerti in modo stimolante quando fai delle critiche, se sentono più efficace che queste siano offerte pubblicamente o in modo più intimo e protetto.

– Senso di urgenza

Continuo senso di urgenza che rende difficile prendersi del tempo per essere aperte e curiose, incoraggiare un processo decisionale orizzontale e/o ponderato, pensare in modo lungimirante, considerare le conseguenze.


Questo spesso si traduce nel sacrificare potenziali passaggi e collaborazioni per ottenere risultati rapidi o altamente visibili, ad esempio sacrificando gli interessi delle comunità oppresse o delle altre forme di vita per ottenere “vittorie“ per chi ha già o crede di avere, saporite briciole di potere e dominio (visti come comunità predefinita o normale).

Antidoti: una progettualità che comprenda che le cose richiedono più tempo di quanto chiunque si aspetti; discutere e pianificare cosa significa fissare obiettivi di apertura e diversità, in particolare in termini di tempo; imparare dall’esperienza passata quanto tempo impiegano le cose; considerare pause e spazi conviviali o di festa per evitare il senso di allarme e sopravvivenza ereditato dalle culture di guerra, essere chiari su come prendere buone decisioni anche nelle occasioni in cui esista una reale urgenza.

– Frammentazione

La comunità o il gruppo di fronte a quello che è troppo per essere vissuto, elaborato e metabolizzato si polarizza in sottogruppi spesso ostili tra loro e incapaci di comunicare se non esercitando forme di potere come giudizi inappellabili, ricatti, minacce, manipolazioni.

 

Le origini delle esperienze sopraffacenti alle quali la comunità risponde con la  frammentazione sono rimosse e l’attenzione del gruppo è cooptata prevalentemente a proiezioni di rabbia e paura con la creazione di “mostri” e nemici, alleati e salvatori.

 

Si manifesta frequentemente lo stesso meccanismo relazionale che si ripete in loop contaminanti di coazioni a ripetere, con la frammentazione ulteriore dei sottogruppi e l’isolamento di alcuni elementi.

Antidoti: approfondire il campo relazionale, ogni componente sviluppa conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso e dei processi organici, alimenta l’ascolto empatico a partire dal riconoscimento delle emozioni e delle sensazioni del corpo. Nutrire la presenza nel qui e ora, disinnescare dinamiche inconsce di reazione e stimolare la coerenza del gruppo attraverso pratiche esperienziali che stimolino l’empatia e l’ascolto personale e relazionale. Io ti sento e sento di essere sentito da te, che a tua volta vivi questa reciprocità. Insieme sentiamo che tutte le componenti della comunità sentono se stesse e hanno la consapevolezza che nessuna manca di ascolto e accoglienza rispetto le proprie esperienze, diversità e complessità.

– Difensivismo

Nelle realtà che ancora contemplano le gerarchie e i ruoli di autorità o potere, viene impostata la struttura organizzativa e si spende molta energia cercando di evitare la messa in questione delle stesse e di proteggere il potere così com’è, piuttosto che favorire il meglio da ciascuna o chiarire chi ha forme di potere temporanee e come ci si aspetta che le utilizzi.


La critica a coloro che detengono ruoli anche temporanei di potere è vista come minacciosa e inappropriata (o maleducata).


Le persone rispondono a idee nuove o stimolanti ponendosi sulla difensiva, rendendo molto difficile la creatività e lo sviluppo di percorsi emergenti.


Molta energia nell’organizzazione viene spesa cercando di assicurarsi che i sentimenti delle persone con ruoli di potere non vengano ferite o aggirando le persone sulla difensiva.


La postura difensiva delle persone al potere crea una cultura oppressiva.

Antidoti: comprendere che la struttura non può di per sé facilitare o prevenire gli abusi; comprendere il legame tra difesa e paura (di perdere potere, perdere la faccia, perdere comfort, perdere privilegi); lavora sui tuoi comportamenti difensivi in modo da accogliere il dissenso e celebrare la diversità; nominare i comportamenti difensivi come un problema quando lo sono; discutere i modi in cui le posture difensive o le resistenze alle nuove idee intralciano i percorsi. Le pratiche reazionarie e di controllo abituali non sono “naturali“ solo perchè nessuno può metterle in discussione.

– Quantità rispetto alla qualità

Tutte le risorse dell’organizzazione o del gruppo sono dirette a produrre obiettivi misurabili.


Le cose che possono essere misurate sono più apprezzate di quelle che non possono, ad esempio il numero di persone che partecipano a una riunione o ad una manifestazione, la diffusione di newsletter o di volantini… I soldi spesi o il consenso sono valutati più della qualità delle relazioni, del processo decisionale orizzontale, della capacità di affrontare in modo costruttivo i conflitti.


Poco o nessun valore viene attribuito al processo; se non può essere misurato, non ha valore.


Disagio rispetto alla possibilità di esprimere emozioni e sentimenti.


Nessuna comprensione del fatto che quando c’è un conflitto tra contenuto (i temi emersi nei cerchi o nelle assemblee) e processo (le persone che hanno bisogno di essere ascoltate o coinvolte), il processo prevarrà… Ad esempio, potremmo affrontare i contenuti, ma se non portiamo attenzione al bisogno delle persone di essere ascoltate, le decisioni prese potrebbero essere pregiudicate e/o disattese)

Antidoti: l’approccio quantitativo ha probabilmente origine dalla sofferenza e dal terrore di morire generate dal trauma della scarsità. Tocca radici molto profonde e spesso inconsce così strutturali da non permettere a società fondate sul calcolo e sulla logica di non vedere l’insensatezza di un sistema basato sull’aumento illimitato del profitto in un ecosistema dalle risorse limitate… Includere metodi per osservare i processi, strumenti per riconoscere i nostri bisogni reali e i nostri intenti nel mezzo di questi, comprese le emozioni che ci attraversano e possono renderci reattive, generando proiezioni dei nostri stati d’animo su altre persone dando corpo a polarità, fazioni, partiti, frammentando la coerenza e bloccano la cocreazione nel gruppo e nella comunità. Assicuriamoci che il gruppo o la comunità abbia una dichiarazione di intenti chiara basata su un’etica o principi che comprendano l’esistenza correlata tra le forme di vita del pianeta.

– Il culto della parola scritta

Se qualcosa non è trascritto o registrato, non esiste.


Il gruppo o comunità non tiene conto né valuta altri modi in cui le informazioni vengono condivise.


Coloro che hanno una forte capacità di documentazione e scrittura sono più apprezzati, anche nelle comunità in cui la capacità di relazionarsi con gli altri è la chiave della convivenza: prendersi il tempo per analizzare come le persone all’interno e all’esterno del gruppo ottengono e condividono le informazioni; capire quali cose devono essere annotate e trovare modi alternativi per documentare ciò che sta accadendo; lavorare per riconoscere i contributi e le competenze che ogni persona apporta al gruppo (ad esempio, la capacità di costruire relazioni umane basate sull’ascolto estranee all’utilitarismo e all’estrattivismo).


C’è solo una via giusta. Si ha la convinzione che ci sia un unico modo giusto per fare le cose e una volta che le persone vengono introdotte ad esso, vedranno la luce e la adotteranno.


Quando non si adattano o cambiano, allora c’è qualcosa che non va in loro (gli altri, quelli che non cambiano), non in noi (coloro che ‘conoscono’ la strada giusta).


Addestrati alla razionalità e all’obbedienza come unico metodo per comprendere la realtà, noi ligi e onesti figli e figlie della cultura dominante ironizziamo o consideriamo poco credibile qualsiasi altra cultura non basata sulla separazione tra soggetto e oggetto, sull’idea di conquista e mercificazione di tutto ciò che appare esterno da noi.

Antidoti: accettare che ci possano essere molti modi per raggiungere lo stesso obiettivo; il fine non giustifica i mezzi e la scelta di questi ultimi spesso trasforma insieme i soggetti e le comunità. Sviluppare la capacità di notare quando le persone fanno le cose in modo diverso e come quei modi diversi potrebbero migliorare il tuo approccio; cercare di evitare la tendenza di un gruppo o di una persona a continuare a rinforzare lo stesso punto più e più volte per la convinzione che ci sia solo un modo giusto e poi nominarlo; quando lavori con comunità di una cultura diversa dalla tua o da quella della tuo gruppo, sii chiaro che devi imparare qualcosa sui modi di fare delle altre comunità; non dare mai per scontato che tu o il tuo gruppo sappiate cosa è meglio per un’altra comunità

– Paternalismo

Nelle strutture gerarchiche il processo decisionale è chiaro a chi ha il potere e poco chiaro a chi ne è sprovvisto. Questi ultimi talvolta desidererebbero schiacciare chi li dirige per ottenere i loro stessi privilegi, ma mantengono una linea apparente di compiacimento per paura di ripercussioni. Altre volte invece delegano intere parti della propria vita all’autorità per incapacità di immaginare solo qualcosa di diverso.


Coloro che hanno il potere pensano di essere in grado e avere il diritto di prendere decisioni per e nell’interesse di coloro che non hanno potere.


Chi ha il potere spesso non considera la possibilità di stare esercitando un abuso ogni volta che impone sugli altri le sue convinzioni.


Chi non ha potere ha difficoltà a comprendere i meccanismi di sopraffazione, le pedagogie basate sull’uso del dolore e della punizione inibiscono la possibile maturazione di una coscienza individuale e comunitaria, ci mantengono in uno stato preadolescenziale in cui la concessione di alcune briciole di consumo diviene il surrogato con cui scambiamo l’intera esistenza.


Coloro che non hanno potere non sanno davvero come vengono prese le decisioni e chi prende quali decisioni, eppure hanno completa familiarità con l’impatto che quelle decisioni hanno sulle loro vite.

Antidoti: assicurarsi che tutte le persone interessate sappiano quando ci si confronta in modo comunitario sui vari temi e possano partecipare al processo decisionale con pari opportunità. Orientarsi a modalità e riferimenti multipli e plurali. Smascherare in modo creativo e non accusatorio comportamenti autoritari o manipolativi ripetuti e ritenuti normali.

– Visione disgiuntiva, pensiero o questo/ o quello

Le cose sono o/o, buone/cattive, giuste/sbagliate, con noi/contro di noi.


Strettamente legato al perfezionismo nel rendere difficile imparare dagli errori o accogliere i conflitti.
Non ha senso che le cose possano essere entrambe/e.


Si traduce nel cercare di semplificare cose complesse, credendo ad esempio che la povertà sia semplicemente il risultato della mancanza di istruzione o della “pigrizia non produttiva“ di alcune “classi sociali“ o culture non dominanti.


Crea conflitto e aumenta il senso di urgenza, poiché le persone sentono di dover prendere decisioni per fare questo o quello, senza tempo o incoraggiamento a considerare alternative, in particolare quelle che potrebbero richiedere più tempo o risorse.

Antidoti: notare quando le persone sono aperte a sondare più di due alternative; notare quando le persone stanno semplificando questioni complesse, in particolare quando le scelte comportano grandi cambiamenti o è necessario prendere una decisione urgente; rallentare e incoraggiare le persone a fare un’analisi più approfondita; quando le persone si trovano di fronte a una decisione urgente, prendiamo una pausa e un po’ di respiro per pensare in modo creativo; evitare di prendere decisioni sotto pressione estrema

– Accumulo di potere
Poco valore, se non nullo, intorno alla possibilità di condivisione del potere reale di decisione e realizzazione dei progetti. Questi divengono proprietà di chi è al vertice delle singole porzioni della piramide gerarchica.


Coloro che volontariamente o meno, hanno il potere sono come in guerra, si sentono minacciati quando qualcuno suggerisce cambiamenti nel modo in cui le cose potrebbero essere fatte all’interno del gruppo o dell’organizzazione, sentono che i suggerimenti per il cambiamento possono mettere in discussione la loro leadership.


Coloro che assumono spesso ruoli di potere prendendo la parola non si vedono come tali e diffidano di consigli e suggerimenti.


Coloro che hanno il potere o la maggioranza, presumono di avere a cuore i migliori interessi del gruppo e pensano che coloro che vogliono il cambiamento siano male informati, emotivi, inesperti.

Antidoti: lo scambio reciproco dei ruoli nelle attività scelte, può permettere di evitare la specializzazione e la delega. I talenti possono essere condivisi, insieme alle capacità e la gioia, la fatica e la soddisfazione, l’esperienza e le delusioni. In questo modo nessuno diventa insostituibile e attraverso le differenze personali arricchisce le esperienze del gruppo. Se l’unanimità evita le polarizzazioni e le miserie delle guerre tra partiti o porta voce, il libero accordo e la convergenza plurale di gruppi non chiusi su percorsi comuni, può assicurare eterogeneità e prospettive non unilaterali. Spesso non sono le maggioranze ad avere le sensibilità più affinate e le visioni più lungimiranti, marginalizzare il diverso o chi è più in difficoltà rende palese la tossicità delle relazioni, degli strumenti e delle strutture. La presenza di umani ed animali di diverse età e caratteristiche rende disponibile una consapevolezza più integrale dei bisogni della comunità.

– Paura del conflitto aperto
Le persone hanno paura del conflitto e cercano di ignorarlo o scappare da esso
quando qualcuno solleva un problema che causa disagio. La risposta è spesso incolpare la persona per aver sollevato il problema o cercare un capro espiatorio.

Incapacità di stare con emozioni come paura, vergogna, frustrazione o rabbia senza proiettarle su noi stesse\i o sulle altre persone.


Equiparare il sollevare questioni difficili con l’essere scortesi, maleducati o fuori luogo.

Antidoti: il conflitto segnala la presenza di qualcosa che ha un valore, un’importanza, di parti diverse che non si relazionano in modo coerente, che rimangono rigide su posizioni apparentemente polarizzate ed inconciliabili. Se queste “parti“ sono disponibili a livello di volontà razionale e i loro sistemi nervosi non sono in “lotta o fuga“, blocco parasimpatico o congelamento, potrebbe essere utile chiedere di esprimere i propri bisogni rispetto all’argomento dibattuto.

In base alle dinamiche di attaccamento relazionale delle persone coinvolte, potremmo avere come normalità in cui ciascuna si riconosce ed identifica, comportamenti evitanti senza esperienze pregresse di riconciliazione.

Il conflitto potrebbe essere un passaggio automatico e inconscio nel processo che dal riconoscimento della differenza porta a cascata giudizio e incapacità relazionale: nell’ambito del patriarcato l’unica risposta possibile al conflitto è la dominanza o la sottomissione. Ma nel campo delle psicologie dello sviluppo, ad esempio nell’opera di Edward Tronick “Il potere della discordia. Perchè il conflitto rafforza le relazioni“, si fa riferimento al profondo senso evolutivo espresso anche dalla possibilità di stare in uno spazio di disarmonia per poi rielaborare una forma relazionale nuova, emergente, più coesa con la variazione continua degli equilibri nell’ambiente.

– Individualismo
Poca esperienza o comodità nel lavorare come parte di un gruppo.


Le persone nell’organizzazione credono di poter essere responsabili della risoluzione dei problemi da sole.


La responsabilità, se presente, è un peso, un carico fastidioso da delegare o che autorizza a prendere decisioni senza ascoltare altre persone o considerare gli equilibri tra comunità, forme di vita e ambiente.


Desiderio di riconoscimento e autostima individuale insaziabile.


Può portare all’isolamento.


La competizione è più apprezzata della cooperazione e dove la cooperazione è apprezzata, poco tempo o risorse sono dedicate allo sviluppo di abilità su come cooperare.


Sono l’unico.


Connesso all’individualismo, la convinzione che se qualcosa va fatto bene, “io” devo farlo.


Poca o nessuna capacità di condividere attività importanti con altre\i.

Antidoti: ricostruire esperienze incarnate di fiducia. Spesso questa parola rimane solo una suggestione cognitiva senza che le persone ne abbiano mai fatto esperienza reale o abbiano avuto modo di riconoscerla e il tempo di sentirla abbastanza profondamente per nutrirsene. Se la fiducia rimane una rappresentazione cognitiva astratta e non è una percezione che nasce da un sentire legato agli sguardi, i toni di voce, i ritmi di ascolto, presenza e disponibilità, gli individui pur rimanendo in situazioni sociali possono rimanere intrappolate in claustrofobici giochi di specchi, alimentando loop di giudizio – vergogna – rabbia – paura che immiseriscono l’esperienza umana.

– Il progresso è divenire più grandi, di più

Il futuro può essere solo un costante e lineare miglioramento associato ad un aumento di qualcosa riconosciuto convenzionalmente come importante. Numeri seguiti da tanti zeri nel conto corrente, clienti, partners, oggetti di consumo, prodotti messi sul mercato, iniziative pubbliche.

Ansia di fama, successo, conquista.

Il progresso è un’organizzazione che si espande (aggiuge capitale, dati, persone, aziende, asset…) o sviluppa la capacità di raggiungere più persone (indipendentemente dal modo in cui si stabiliscano le relazioni)


Antidoti: creare una nuova forma pensiero lungimirante, denominata in alcune culture native di Settima Generazione, chiedendoci come le azioni del gruppo ora influenzeranno le esistenze tra sette generazioni;

– Obiettività
La convinzione che esista qualcosa come l’essere oggettivi.


La convinzione che le emozioni siano intrinsecamente distruttive, irrazionali e non debbano svolgere un ruolo nel processo decisionale o nel processo di gruppo.

 

Invalidare o sottovalutare le persone che mostrano emozioni.


Richiedere alle persone di pensare in modo lineare e ignorare o invalidare coloro che pensano in altri modi.

 

Insofferenza per ogni pensiero che non appare “logico” a chi ha il potere.

Antidoti: rendersi conto che tutti hanno una visione del mondo e che la visione del mondo di tutti influisce sul modo in cui comprendono le cose; rendersi conto che questo significa anche te; spingiti a sederti con disagio quando le persone si esprimono in modi che non ti sono familiari; supponi che tutti abbiano un punto valido e predisponiti all’ascolto per capire qual è quel punto.

– Diritto al comfort
La convinzione che chi assume ruoli di potere abbia diritto a maggiore conforto emotivo e psicologico (un altro aspetto della valorizzazione della “logica” rispetto alle emozioni).

 

Giustificare i privilegi attraverso il ricordo della fatica e del lavoro speso per ottenerli. L’Europa nei secoli ha saccheggiato, schiavizzato e colonizzato gran parte dei popoli e delle specie del pianeta. Poche persone si domandano cosa resterebbe degli attuali imperi economici senza le materie prime che sono estratte dai paesi più oppressi.


Equiparare gli atti individuali di iniquità nei confronti dei bianchi con il razzismo sistemico che prende di mira quotidianamente le persone di colore.

Antidoti: capire che il disagio può anche essere alla base di ogni crescita e apprendimento; accolglilo il più possibile; approfondisci la tua analisi politica del razzismo e dell’oppressione in modo da avere una profonda comprensione di come la tua esperienza personale e i tuoi sentimenti si inseriscono in un quadro più ampio; non prendere tutto sul personale.

– Colonizzazione tecnologica e digitale

Un’esperienza esiste ed è valida solo se è presente su internet e tanti più “followers la seguono“.

 

Sei escluso o “difficile“ se non sei raggiungibile, non possiedi uno smart phone e non sei in chat di gruppo.

 

Le intelligenze artificiali sono neutre e più affidabili di quelle umane.

 

I gruppi o comunità oggi sono quelli digitali, per comprendersi non c’è più bisogno di stare insieme senza tempo, ridere, permetterci di sbagliare, ascoltare i silenzi, stare negli sguardi e condividere, fatiche e riposo, delusioni e gioie nel quotidiano.

 

Antidoti: le nuove tecnologie tendono a distanziare gli esseri umani dal senso delle proprie azioni, ad espropriali dalle loro capacità fisiche e acciecarli dalle ripercussioni delle loro scelte sulle altre forme di vita. La nuova recinzione digitale ci separa dal sentire acuendo la dissociazione dai nostri corpi e dalla vita come è stata per millenni e ci ha permesso di essere qui fino ad ora. La paura della sofferenza e della morte sembra aver generato come una patologizzazione dell’esistenza stessa. Ma se la vita è percepita come pericolo e la tecnologia come sicurezza, allora ci spieghiamo perchè insieme all’automazione di servizi, trasporti e strumenti del quotidiano stiamo assistendo inermi anche ad una sempre maggiore esclusione sistemica di persone ed animali dalla possibilità di vivere ed accedere a cibo, acqua e ristoro, oltre al sempre più ampio utilizzo di forze e modi militari nelle città ed armi letali autonome nei territori di guerra esplicita.

Tornare ad avere contatti umani in cui sentiamo noi stesse e le altre, essendo a nostra volta accolte, viste, sentite e comprese, permette di uscire dai labirinti virtuali in cui ci stiamo chiudendo.

 

Sei fedele al fiele?

La civiltà dedita al profitto sembra essere radicata nel modo in cui guardiamo il mondo, nelle nostre convinzioni, nei nostri impulsi, nelle nostre cellule, fin dentro alle viscere, al sangue e alle ossa.

Quanto siamo disposti a difendere il gruppo, la cultura, lo Stato con cui ci identifichiamo? Da dove arriva questa fedeltà a ciò che ci hanno insegnato ed abbiamo assorbito spesso per osmosi?

Nell’attività che svolgo da anni nell’accompagnare donne e uomini di tutte le età e culture ad elaborare i propri traumi, larga parte del lavoro ha a che fare con le dinamiche educative e dello sviluppo. Una donna di circa sessanta anni di origine sarda mi ha raccontato che da bimba i genitori la lasciavano chiusa in una stanza buia a piangere ed urlare ogni volta che la vedevano toccarsi il corpo in modo giocoso. Questo è il modo in cui naturalmente i bambini accedono alla sensazione di corporeità integrale e iniziano a familiarizzare con il piacere, via preferenziale per un’esistenza libera e sana. Nella sua mente la relazione al proprio corpo era stata associata al terrore e all’abbandono del gruppo. Non riusciva ad avere relazioni umane perchè il suo volto era terribilmente corrucciato e nonostante vivesse in una comunità intenzionale dedita alle pratiche contemplative, finiva per litigare con tutti non riuscendo a trattenere la sua ira ogni volta che si sentiva giudicata. Allo stesso tempo le persone che le si avvicinavano probabilmente erano molto intimorite dai sui sguardi collerici e diffidavano della sua presenza giudicante.

Un’altro esempio riguarda una donna ottantenne originaria come me delle Marche. Seconda figlia di una famiglia che nel Novecento non aveva terra di proprietà da coltivare per sopravvivere nelle colline sulle pendici dei monti Sibillini, era stata mandata in tenera età a lavorare per un padrone che gestiva alcuni latifondi a mezzadria. Dopo le otto ore passate a falciare l’erba sotto il sole o il freddo, se l’uomo che controllava il lavoro di questi gruppi di braccianti scorgeva un solo filo d’erba non raccolto, imponeva all’intero gruppo di rimanere un’altra ora a lavoro, spesso fin dopo il tramonto. La piccola bimba allora stanca e impaurita doveva prendere la strada di casa da sola, camminando per quei sentieri sterrati e senza illuminazione con la paura di essere aggredita o abusata. In età adulta aveva sviluppato un’ossesione fortissima per il giudizio degli altri, non aveva nessuna relazione di amicizia e viveva tutta la settimana in casa per non essere vista. Anche l’uscita domenicale per recarsi alla messa era un momento difficilissimo poichè non si sentiva adatta agli sguardi del vicinato se non aveva vestiti nuovi o che le permettevano di sentirsi accettata secondo le antiche convenzioni locali.

La famiglia, il quartiere, l’ambito di lavoro o delle amicizie erano e sono, insieme ai “social“ e alle comunità virtuali odierne, gli spazi in cui veniva sancita l’appartenenza, spesso misura della possibilità di sentirsi riconosciute, non provare vergogna, sentirsi accettate o addirittura di sopravvivere: gli ambiti in cui si è costrette a conformarci spesso inconsapevolmente all’immagine di qualcun’altro su chi o cosa dovremmo essere, fare o pensare.

La prospettiva intersezionale rappresenta indubbiamente uno strumento per acuire la nostra comprensione ed empatia per i viventi le cui identità sono ancora oggetto di forme di oppressione continua, sistemica e strutturale. Per far sbocciare il potenziale creativo di nuove culture generative è necessario affinare sensibilità radicali e non cadere nella categoria delle vittime, rimanere complici o diventare nuove carnefici.

Imparare a sentire, elaborare e indirizzare insieme la paura, la rabbia, la vergogna e la disperazione accumulate nei corpi personali e collettivi da secoli di potere coercitivo.

Insieme alle culture tossiche e alle tensioni generate dall’intersezione delle forme di oppressione, possiamo volgere la nostra attenzione anche alle forme di socialità che generano liberazione.

Oggi sappiamo bene quanto il trauma personale e collettivo blocchi l’immaginario e rapisca l’attenzione verso ciò che è tossico, più carico di emozioni adrenergiche.

Cosa avviene se provi ad immaginare momenti in cui ti sei sentita libera e in una relazione di reciprocità ed arricchimento comunitario? Arrivano dei ricordi in tal senso o solo esperienze difficili ed emozioni complesse?

Volgiamoci anche a ciò che non è ancora del tutto intossicato!

Quali comportamenti, disposizioni o metodi senti realmente liberatori e coevolutivi?

Che cosa avviene all’intersezione di tali pratiche di liberazione? Quali qualità umane incarniamo mentre le mettiamo in gioco insieme alle altre forme di vita?

Comunità intenzionali ecologiche, interdipendenza ed interessere

Assaggiare la potenza e il calore del sole nell’energia zuccherina di un grappolo d’uva sa anche di cielo, di nuvole e di vento. Dei cinghiali che non hanno attaccato la vite per calmare la fame e dei profumi dei fiori e delle erbe cresciute accanto ad essa. Allo stesso modo, come ha trasmesso Thich Nhat Hanh durante la sua intera esistenza, possiamo prendere consapevolezza del dono del filo d’erba, degli alberi, delle foreste, delle giungle, delle praterie sottomarine di alghe degli oceani, ogni volta che inspiriamo ossigeno dall’aria che ci permea e ci circonda in quel fenomeno semplice e meraviglioso chiamato interessere.

Ogni forma che l’energia prende è in continua relazione con il tutto, in maniera perfettamente interdipendente.

La cocreazione di comunità di esseri umani animati dal senso di reciprocità che correla le cellule di ogni organismo vivente, comporta la destrutturazione delle culture dello scorso secolo fondate sulla gerarchia e sul dominio. La curiosità di rimanere nel flusso della vita come processo osservando quali paure collettive abbiamo ereditato e non ci permettono di accedere al senso pieno della nostra presenza sulla Terra.

All’aforisma “la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro“ espresso dal filosofo Kant e ripreso da Martin Luther King, potremmo forse sostituire la “libertà può nascere quando la coscienza si espande nelle relazioni di interessere“?

Cosa ci trattiene dall’elargire gioia senza un perchè?

Siamo forse solo figli tossici della scarsità e del privilegio, della società cancerogena globalizzata che consuma?

Al nettare… Il gioco, la festa e l’estasi

Non possiamo incarnare da sole\i l’interezza, la ricchezza delle infinite prospettive, uniche e irripetibili, nate dalle nostre preziose differenze.

Noi…

Insieme, abbiamo viaggiato senza meta, siamo rimasti nudi ad ascoltare la pioggia cadere dall’infinito dei cieli sulla nostra pelle, abbiamo girato e seminato terra fertile, saccheggiato i templi del consumo, venerato uomini in croce, donne armate di coltelli e numeri sui conti correnti, abbiamo celebrato ebbri di felicità la nascita di nuove vite, assaporato frutta succosa, pianto di commozione e disperazione, sentito i morsi della fame, i brividi del freddo e della paura, abbiamo dipinto tele col sangue mestruale del non nato, vissuto coi piedi tremanti il terrore del vuoto nei terremoti, ballato e saltato come antiche baccanti su cofani di macchine lussuose tirate a lucido, abbiamo fatto l’amore fino a perdere i confini del corpo, dileggiato il pensiero frequentando il silenzio in primitive caverne, visualizzato aure, respirato lacrimogeni, sognato il futuro, abbiamo alimentato e spaccato banche, danzato per giorni sotto il sole e le stelle come se non ci fosse nient’altro per cui esistere, spalato il fango delle alluvioni, acceso fuochi sui tetti, stretto i denti per andare avanti, tirato fuori amiche dalla pazzia in cui si erano rifugiate, mangiato fiori, cacato in strade popolate di carte di credito e fantasmi, accompagnato alla morte, assaporato l’estasi…

Jerry Diamanti

www.equilibrinaturali.net

leviedolci@gmail.com

Photo by Mario Purisic

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