Gli alberi della valle erano come noi, gente anche loro, che non parla, ma sente il caldo e il gelo, gode e soffre, nasce e muore.
Primo Levi, Il sistema periodico.
Questo articolo vuole essere un piccolo “saggio guida” per la comprensione di un concetto che è quello della pluralità eco-sistemica, ma soprattutto vorrebbe essere un contributo utile alla presa di coscienza che per cambiare il mondo da un punto di vista ecologico e sociale, per salvarci dal “disastro” è necessario un modo differente di guardare e pensare alla “natura.”
Negli ultimi anni l’ambiente e la crisi climatica, sono tra i temi più narrati e discussi, come può contribuire l’antropologia a questo dibattito?
Raccontando, narrando altri modi di vivere – che per lungo tempo abbiamo erroneamente considerato “primitivi,” “selvaggi”- come possibilità con le quali relazionarsi, condividere, scambiare, ragionare.
Molte società mantenendo dei legami di complicità e d’interdipendenza con gli abitanti non umani del mondo hanno saputo preservarsi dal saccheggio irresponsabile del pianeta nel quale gli occidentali si sono impegnati senza sosta negli ultimi tre secoli.
Il compito dell’antropologia secondo Philippe Descola non è di dare delle soluzioni certe, ma di mostrare che quello che pare eterno, questo presente nel quale ci troviamo attualmente, è solo e semplicemente un modo, tra centinaia d’altri che sono stati descritti, di vivere la condizione umana. L’antropologia ci offre la testimonianza di molteplici soluzioni che sono state apportate al problema dell’esistenza in comune, dobbiamo sforzarci a immaginare nuovi mondi, perché è proprio il potere dell’immaginazione che dà forma al cambiamento.
Natura/cultura proviamo a orientarci grazie agli studi antropologici
Per più di un secolo l’antropologia ha avuto le idee abbastanza chiare su come descrivere e separare la natura dalla cultura. La natura è stata descritta come universale e indipendente dagli umani, ovvero la natura come l’ambiente che ci circonda, montagne, mari, cielo.
La cultura invece ci è stata descritta e raccontata come il prodotto dell’azione degli umani, a partire da Tylor (1871) sappiamo che tutti i gruppi umani producono culture, in Primitive Culture l’antropologo britannico fonda la specificità della dimensione culturale sul carattere acquisito delle sue componenti. Come parliamo, come ci vestiamo, come balliamo, come mangiamo tutto è frutto di una costruzione culturale.
Una coppia binaria in cui la cultura (ciò che è regolato dal pensiero e dalla tecnologia umana) è universalmente valutata come superiore alla natura (ciò che non è regolato). L’antropologo però che senza dubbi descrive in modo più chiaro l’opposizione natura/cultura, animalità/umanità è Lévi-Strauss che ne Les structures élementaires de la parenté del 19491 postula questa separazione come cesura oggettiva del reale determinata dalla comparsa del linguaggio articolato. L’etnografia e la paleoantropologia del XXI secolo però hanno messo radicalmente in crisi questo quadro epistemologico. La descrizione dell’imprinting e la difficoltà di distinguere istinto e imitazione nei cuccioli animali rendono insostenibile l’idea che l’apprendimento e i caratteri acquisiti siano una caratteristica esclusivamente umana. Anche la funzione sociale risulta generale e inerente anche al regno animale. Un animale sociale isolato non rivela il fondamento organico della specie, ma manifesta carenze neurologiche, fisiologiche e fisiche, come avrebbe un essere umano ipoteticamente sottratto alla nascita dal suo ambiente socioculturale. Quindi la cultura non è un fatto esclusivamente umano per questo diventa impossibile una separazione netta natura-cultura.
Per Geertz la considerazione della cultura in termini di simboli condivisi non implica una frattura tra natura e cultura: l’evoluzione culturale ha inizio quando quella organica non è ancora conclusa, e la stessa variabilità culturale affonda le sue radici nella biologia dell’uomo. Tanto la natura quanto la cultura sono di fatto delle costruzioni culturali che vengono interpretate a seconda delle scelte e delle prospettive delle diverse popolazioni, per questo diviene fondamentale ridefinire il termine natura o per usare le parole di Latour agentivizzarlaA.
Latour partendo da un modello costruttivista spiega la realtà sociale distaccandosi in modo radicale da qualsiasi tendenza essenzialista della natura e della società, affermando che ogni idea scientifica, manufatto tecnico, ogni fatto sociale, risulta come il prodotto di un’intricata rete di relazioni in cui interagiscono attori sociali umani e non-umani. Si tratta di relativizzare la dicotomia natura/cultura, una visione che non dobbiamo più considerare come universale e fondamentale, ma come un fatto culturale e quindi relativo al suo contesto di produzione. Scrive Latour in Non siamo mai stati moderni2, che il concetto stesso di cultura è un prodotto artificiale, creato da noi mettendo la natura tra parentesi. Non ci sono culture più di quanto non ci sia una natura universale. Ci sono solo nature-culture e sono loro che offrono l’unica base di confronto possibile. Basti pensare che in molte lingue non è neanche traducibile il concetto “di natura” come siamo abituati a configuralo, è necessario superare questa concezione estremamente eurocentrica.
Questo conflitto tra natura e cultura che noi, abitanti dell’Occidente moderno, abbiamo preso a paradigma del mondo, è invece solo una delle visioni possibili, create dagli esseri umani per potersi adattare a vivere nell’ambiente che li circonda.
In contrasto con la cosmovisione occidentale, che tratta spazi naturali come semplici e inerti fonti di risorse materiali a esclusivo vantaggio dell’essere umano, ci sono altri modi di concettualizzare il vivente, dove il mondo “naturale” è composto da soggetti e dalle relazioni comunicative che tali esseri intrattengono tra loro e con noi animali umani. Il modo in cui gli altri generi di esseri ci vedono è importante. Il fatto che altri esseri possano vederci, cambia tutto. Se anche un albero o un giaguaro hanno una rappresentazione di noi, allora l’antropologia non può più semplicemente limitarsi a esplorare le rappresentazioni che le diverse società producono. Questi incontri con altri esseri ci spingono a riconoscere il fatto che vedere, rappresentare e forse conoscere, o persino pensare, non sono questioni esclusivamente umane3.
Il dualismo natura-cultura è una visione che si è sviluppata principalmente in Europa a partire da Aristotele, concezione che si struttura in modo strettamente antropocentrico in seno alla teologia cristiana vedendo l’essere umano come colui che deve dominare ciò che lo circonda, una sorta di diritto a governare la natura sentendosene parte esterna e superiore. Questa opposizione natura/cultura si espande nella metafisica dualistica cartesiana che di fatto pone le basi della scienza nella separazione netta tra sostanza materiale e sostanza spirituale. L’antitesi umanità-natura si è così configurata nei termini di un irriducibile spaccatura ontologica tra soggetto conoscente e oggetto della conoscenza. Una razionalizzazione che vede la natura nelle parole di Descartes come res extensa, una materia inerte, separata dal pensiero e che il pensiero può manipolare.
E’ proprio da questa concezione della natura che inizia il disastro ecosistemico che caratterizza la nostra epoca storica, potremmo dichiarare che da questo momento, poniamo le fondamenta per l’antropocene. Gli animali umani posti al di sopra di tutto, che per realizzare il loro “benessere” hanno trasformato il resto degli esseri viventi in oggetti, la cui unica funzione è quella di servire come mezzi per la vita dell’uomo.
Non è sempre questa la visone cosmologica nel mondo, per esempio un abitante della foresta amazzonica e per un aborigeno australiano di fatto la distinzione tra ciò che noi consideriamo naturale e ciò che consideriamo culturale non ha alcun senso perché nel loro mondo tutto è al tempo stesso naturale e culturale, l’uomo è natura come lo sono le piante e gli animali, siamo inseriti in una relazione tra soggetti che si relazionano e dove nessuno ha il diritto di dominazione verticale. Si tratta di pensare al mondo come una totalità integrata, come un insieme di relazioni.
Sin dall’antichità in India le popolazioni induiste, bhuddiste e gianiste venerano le piante e gli alberi considerandoli sacri come tutta la flora e la fauna. Questa pratica rivela la sensibilità, la lungimiranza e la raffinatezza di queste costruzioni cosmologiche. Il giainismo prevede di fatto anche una forma estrema di veganismo: la dieta del fedele arriva a escludere anche molti vegetali e persino l’acqua viene filtrata al fine di non ingerire involontariamente piccoli organismi.
In queste cosmovisioni indiane Dio, il principio vitale, non è peculiarità solo umana ma pervade tutti gli esseri viventi, sia piante che animali; l’esistenza dell’umanità sulla terra dipende dalle piante e dagli alberi. Sono loro che rendono possibile la vita sulla terra, donando cibo, ossigeno, ripari, medicine…
Le sacre scritture induiste dicono esplicitamente di piantare dieci alberi se per qualche ragione dovessimo abbatterne uno. Viene raccomandato di usare le varie parti degli alberi e delle piante solo per soddisfare le necessità di cibo, combustibile e riparo. Inoltre si esorta a chiedere scusa ad una pianta o ad un albero prima di tagliarlo, per evitare di cadere in una particolare colpa chiamata suna. Alcuni tra i più importanti esseri divini si manifestano come alberi, piante o animali questa è un’ altra differenza sostanziale con la maggior parte delle religioni monoteiste con una visione del sacro totalmente umanocentrica.
Marshall Sahlins ci ricorda che per i Cree4, le persone umane non sono poste al di sopra e in contrapposizione a un contesto materiale di natura inerte, ma sono piuttosto una specie di persone in una rete di soggetti interdipendenti. Un Maori della Nuova Zelanda invece quando cammina lascia le sue impronte sulla Madre terra, ferisce il dio Tàne quando taglia gli alberi e consuma l’antenato Rongo quando mangia le patate dolci. I Maori scrive Sahlins vivono in un universo interamente composto da persone che discendono tutte dai primi genitori, Terra (Papa) e Cielo (Rangi). L’universo è di fatto un grande parentado. L’etnografo Elsdon Best ha notato come tutto ciò che circonda i Maori sia imparentato con loro, inclusi gli alberi, gli uccelli, gli insetti, i pesci, le pietre e “gli stessi elementi”5. Si può dire così “siamo stati plasmati, corpo ed anima, per una esistenza culturale6”legata strettamente al suo contesto locale di produzione e relazione con gli altri viventi. L’evoluzione biologica è stata, determinata da una selezione culturale. Dunque condurre una vita basata sulla cultura significa avere la capacità e riconoscere la necessità di realizzare simbolicamente le proprie inclinazioni corporee, secondo determinazioni che hanno un senso per noi e per gli oggetti/soggetti della nostra esistenza; lungi dall’essere artificiale e derivata è una sorta di “intelaiatura simbolica” che avvolge il corpo, come anche i suoi bisogni e pulsioni, ed è il risultato della densa e lunga storia di selezione culturale dalla quale siamo emersi.
Lo stesso cervello, ricorda Sahlins, è un organo sociale. Evolutosi nel Pleistocene sotto pressione delle relazioni sociali da instaurare e consolidare, da estenderle e renderle solidali e complesse. Relazioni allargate, oltre la specie che comprendono anche le “persone” non-umane. Ogni costruzione culturale e biologica è per questo iscritta in forme variabili di senso che la realizza, coevolvendo. La natura umana è quindi “annacquata” come sostengono gli abitanti delle Fiji; è un divenire invece che un essere.
Nella mia esperienza nel Sud-Est Asia quando cercavo di capire insieme agli abitanti indigeni Hmong e Dzao di quei luoghi cosa fosse per loro la natura, mi veniva sempre descritta come una sorta di un unico insieme dove tutto è inserito, dove tutto ha spirito, perché gli spiriti abitano tutte le cose e possono controllare la vita sotto forma di energie, perciò devono essere interpellati, rispettati e propiziati in ogni momento importante per il gruppo e il singolo. Ci si deve muovere con attenzione e rispetto nell’ambiente che ci circonda perché tutto ha un anima.
La mia ricerca etnografica negli ultimi anni si è concentrata attorno al tema della casa7, quello che mi hanno insegnato le popolazioni indigene con le quali sono entrato in contatto è che anche le case sono vive, sono pensate e agite come organismi viventi che nascono, crescono, si possono ammalare e morire. Questo non significa che la casa è una persona, ma che la casa non può essere pensata solo come materia o meglio come merce. La casa nella maggior parte delle comunità indigene che ho conosciuto è un organismo elastico, aperto verso l’esterno, include non soltanto il costruito, ma l’ambiente di vita e i significati simbolici che le comunità vi iscrivono. Attenzione, comunità di viventi, non solo comunità di animali umani, ma società complesse abitate da animali, piante e montagne. Potremmo semplificare dicendo che è una casa di relazioni tra i viventi, o meglio che la casa è la natura.
L’uomo occidentale invece si sente e si è sentito il padrone e possessore della natura perché si è considerato superiore al mondo che lo circonda e ha smesso di percepire il mondo come un tutto. Stiamo cominciando a capire che il prezzo di questa cosmo-visione è un prezzo molto alto da pagare, che ha portato all’inquinamento e alla distruzione di tutto ciò che ci circonda e a una probabile estinzione della nostra specie.
In queste poche righe ho cercato di spiegare perché la natura di fatto, non è un luogo ma un organismo vivente e noi come specie ne facciamo parte, sembra una piccola cosa da comprendere ma è fondamentale per ripensarci nel qui e ora. Lo sforzo che ho chiesto a voi lettori e lettrici è stato di pensare alla natura come il sistema totale degli esseri viventi, animali e vegetali, e delle cose “inanimate”, la natura come una totalità che include evidentemente anche la nostra specie.
Sono sempre più convinto che sia giunto il momento di fondare un’ecologia dove tutto il vivente, uomo compreso interagisca senza frontiere di specie. La natura andrebbe pensata e vissuta non come separata dall’uomo ma come un un insieme di relazioni, perché il paesaggio è prima di tutto un luogo di “vite” da rispettare e comprendere, non un oggetto da museificare, patrimonializzare e mercificare.
Andrea Staid
A) Lévi-Strauss nell’edizione del 1967 de Les structures élementaires de la paranté, modifica radicalmente l’idea che la distinzione natura/cultura, animale/uomo, rappresenti una cesura reale, e considera queste demarcazioni, in realtà poco lineari e definite, come rappresentazioni culturali di natura difensiva, mediante le quali l’uomo fonda la sua identità specifica e la sua irriducibilità ad altre forma di vita. In Dizionario di antropologia, a cura di Ugo fabietti e Francesco remotti, Zanichelli, Bologna, 1997.
1B. Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina editore, Milano 2000
2B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 1995
3 E. Kohn, Come pensano le foreste, Nottetempo, Milano 2021, p. 41.
4Cree è un appellativo riferito a diversi popoli indigeni in America del Nord, come i nehiyaw, nehithaw, nehilaw, nehinaw, ininiw, ililiw, iynu e iyyu. Possono essere suddivisi in due grandi gruppi: quelli che identificano se stessi utilizzando un derivato della loro storica denominazione nehilâw e quelli che si identificano con il termine “persona”, storicamente iliniw.
5M. Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, Elèuthera, Milano 2010.
6Ivi, p. 120.
7A. Staid, La casa vivente. Riparare gli spazi imparare a costruire, Add, Torino 2021.