Nei primi vent’anni della mia vita non avevo un nome.

Ero “la figlia del Maestro”. Una composizione di lettere e suoni che per decenni hanno impresso nelle mie memorie una responsabilità e un dovere in evidente contrasto con la natura selvaggia del mio Essere. Ebbi la grazia di vivere in una famiglia stimata in Occidente ed Oriente per le sue antiche e ricercate conoscenze, ma ciò mi rese ardua la possibilità di incarnare il mio sentire appieno. Troppa discrepanza fra ciò che si condivideva in famiglia e fuori dalle quattro mura.

Cominciò la scissione.

Poi un giorno a nove anni sfiorai un uomo su un mezzo pubblico e furono pronunciate parole dure: “Tornatene a casa tua! Negra di merda. Crescerai e ruberai il lavoro ai nostri figli”. Non compresi razionalmente cosa successe, ma fu chiaro che una parte in me non andava bene, non era riconosciuta ed accolta. Da lì a pochi mesi fu organizzata una festa di compleanno per un compagno di classe, furono invitati tutti, a parte me. E ancora non comprendevo il significato intimo di tutto ciò, ma cominciava a formarsi un pensiero sempre più chiaro: non hai una tua vera identità e sei diversa.

 

Mi catapulto indietro in questi eventi e sento cosa mi dice il corpo: una lieve stretta all’intestino, le spalle rilassate, lo sguardo presente. Respiro.

 

Al ritorno da un anno in Inghilterra provai la grande paura di non riuscire a rientrar a casa dalla mia famiglia a causa del permesso di soggiorno in rinnovo, mi sentii braccata, impotente e in un sistema ingiusto. Rammento i decenni prima di ottenere la cittadinanza italiana, le code fatte insieme alla mia famiglia fuori dai cancelli di questure e consolati, ad elemosinare un bigliettino con su scritto un numero che avrebbe deciso la sorte dei nostri successivi mesi. La possibilità di avere dei documenti, mentre proprio in questo momento, qualcuno fra le onde del Mar Mediterraneo, con meno privilegio del mio, non sa se riuscirà a toccare terra.

 

Per aggiungere al mio bagaglio di diversità ancora più sostanza, si decise in famiglia che avrei vissuto tra Occidente ed Oriente per un decennio, affinché non perdessi il legame con le mie origini, le arti della danza e del canto. I viaggi in Asia rafforzarono in me un senso di separazione dalla realtà in cui niente era profondamente vero e radicato, perché tutto era di passaggio fra la vita e la morte. Ciò creò in me, “fuori dal tappetino”, la possibilità yogica della disidentificazione da ciò che vivevo, dalle situazioni, dai luoghi, dalle persone e da me stessa. Tutto ciò che provavo e vedevo era così ricco e paradossale, che non potevo attaccarmi o appigliarmi a niente di tutto ciò, tutto era vero e un sogno allo stesso tempo. Non vi era possibilità di giudizio, perché gli umani erano in grado di vivere in modi davvero diversi e contrastanti. Le strade in ordine in Occidente e il caos vivo in Oriente. La complessità delle relazioni europea e la semplicità animalesca delle tribù asiatiche. I senzatetto al freddo in Piazza Principe e i mendicanti dormienti sotto al sole cocente per le strade a Chennai. L’austerità delle chiese e il delirio dei templi. Il peccato del corpo e la trance a piedi nudi fra le galline. In tutto ciò, le pratiche a cui sono stata iniziata sin da giovane non aiutavano ad assestare la situazione, infatti, antenna inconsapevole che fui, resi il mio corpo disponibile affinché vi passassero frequenze e dimensioni oltre l’immaginabile, senza comprenderne davvero il significato. Questo mi segnò profondamente nella psiche e nel corpo.

Chi sono stata io in tutto quel susseguirsi di vita?

Incredula ragazza che non si sentiva a casa in nessun luogo, determinata a non soffrire né da italiana né da indiana, ricca di esperienze e conoscenze che andava “accumulando” ancora non sapendo come esplorarle e condividerle per essere vista, riconosciuta e accolta.

Prima che me ne accorgessi, incontrai l’amore il quale mi insegnò a riconoscere in me una sorta di rassegnazione nei confronti dell’essere umano. Senza accorgermene ero diventata abile a perdonare in partenza chiunque facessi avvicinare al mio cuore, in ogni relazione d’amore o di amicizia presentivo la trappola umana che voleva creare sofferenza. Per non volerla sentire, perdonavo in anticipo, ma questo perdono a volte mi portava alla dissociazione da me stessa e alla rassegnazione. Una rassegnazione vicina al sentimento provato da migliaia di donne indiane succubi dei loro padri, fratelli e mariti. Percepivo che vi era una differenza fra sofferenza e dolore. Lo sapevo da dentro.

La vita mi stava “iniziando” ai primi passi inconsapevoli nel vivere nel corpo le memorie transgenerazionali. L’incredibile facoltà di potermi connettere al dolore del passato nostro e delle mie ave per poterlo attraversare senza immergermi e perdermi nelle storie ad esso associate.

 

Non avevo un modello da seguire e neanche qualcuno che mi appassionasse e ispirasse senza farmi fare delle domande. Forse la mia unica musa è stata l’amore che incontravo nelle relazioni di affetto e complicità in un vortice di danza e musica. Un essere ricco nel suo potenziale, feroce nelle sue vene e completamente disorientato dalla miriade di stimoli di più culture.

Mi sentii finalmente a casa quando per sette anni viaggiai dentro e fuori con un’orchestra composta da molti volti colorati, come me, forse accomunati da un senso comune del “non sentirsi mai a casa”. Grazie a più di una dozzina di musicisti, cantanti e danzatrici, quell’indimenticabile lunga esperienza mi permise di accogliere e amare la mia identità non europea, si rafforzò il fuoco del cuore e compresi da dentro la potenza dei mantra e della danza Bharatanatyam che condividevo sui palchi sostenuta da quella bizzarra famiglia del mondo. Finalmente fui vista, riconosciuta e accolta, avevo fatto della mia diversità una fucina di creatività.

Da quel periodo ora mi arriva un senso di spensieratezza, la testa leggera e un cuore lievemente malinconico.

 

Ma avvenne un’ulteriore scissione mentre stavo per salire su un treno dopo un concerto a Monaco in Germania: il corpo in pieno dolore e l’immagine di me riflessa su uno specchio in frantumi, in mille pezzi. Tra le schegge si voleva far spazio luce.

Fra i concerti, il cemento, i semafori e l’università, incontrai una sciamana che risvegliò definitivamente in me la necessità, il bisogno e il desiderio di “vedere” il mondo invisibile, di sentire che vi era altro oltre a questo piano tridimensionale.

Chi ero io? Una danzatrice? Una yogini? La figlia del Maestro? Una guaritrice?

Con queste domande nel cuore, abbandonai una carriera, l’orchestra e l’amore verso gli altri e partii per un lungo viaggio per sciogliere me.

In riva al Gange.

Una lieve sensazione di euforia mi pervade il corpo. La ricerco e la incanalo con un semplice dharana ripetendo piu’ e piu’ volte il mio mantra… Il mio amor per me… Il ringraziare per questo gran dono che è la vita. Sono in un paesello sui primi colli a valle dell’imminente Himalaya. La forza della Madre Ganga che scorre a pochi metri da me, che rilascia nell’aria limpidezza e chiarezza. I piedi per la prima volta in quest’acqua fredda ma così fredda che non ci credi, che ti fa andar al di là della mente e ci stai e respiri.
E comincio a percorrere il fiume verso nord meravigliata e persa nel paesaggio che mi circonda. Disegni perfetti di tronchi in primavera che privi di foglie s’intrecciano e si amano. Uno sfondo blu che si specchia sul fiume, fiume che porta via le foglie secche, foglie senza vita lasciano spazio ai nuovi germogli che bramano i primi raggi di luce caldi che arrivano dopo una gelida e buia notte. Un albero bellissimo, alto, maestoso in fiore. Fiori grandi quanto una mano, rossi che contrastano con il resto del paesaggio.

Il profumo di Natura che sol ora, dopo mesi di viaggio, comprendo in me. Mi nutre da sempre, con la semplicità e la forza del respiro che m’insegnò ad amare il silenzio. Quella costante sensazione di “io” che non si attacca alle parole, ma che riverbera nell’eco della domanda “chi sono io”.

Da questa assenza di tutto, grazie al sostegno di profonde anime indiane, mi ricordai il mio nome, Nadeshwari, la danzatrice di Shiva, del Silenzio, del Vuoto e la Dea delle Nadi, dei canali energetici… Ancora una volta un paradosso, ma questa volta accolto.

Imparare a stare nella sensazione corporea del paradosso. La mente si silenzia, lo sguardo si fa liquido, il corpo si espande.

 

Da lì  nel viaggio dell’incarnazione, dell’ embodiment, in più occasioni incontrai diverse modalità relazionali, in alcune di esse sembrava ci fosse una disposizione al controllo da parte di chi non riusciva a stare con quello che emergeva dall’esperienza insieme: bisogno di riempire i silenzi, necessità di prevaricare, soggiogare l’altro, incapacità di esplorare se stessi orientando la conversazione sempre sull’altro… In alcuni casi feci esperienza della manipolazione.

Notavo su di me e sugli altri che, più non vi erano chiarezza, integrità ed etica incarnate, più si apriva la necessità di seguire modelli e abitudini in cui qualcuno dominava e qualcuno si sottometteva: dalla figura di riferimento familiare alla terapista, dal Guru all’organizzatore di eventi, una strategia attuata dall’essere umano nell’incapacità di relazionarsi da uno spazio del cuore ben radicato a terra.

Col tempo però poi, ebbi la sensazione di essere rientrata nel letto del mio fiume, la direzione era chiara e non vi era obiettivo. Un continuo movimento che ciclicamente mi faceva incontrare rabbia, tristezza, gioia e paura. Un continuo toccare queste emozioni che ancora oggi muovono il mio essere dolcemente incarnato in questo corpo che ho imparato ad amare.

 

A volte non vorrei identificarmi con il mio corpo, ma questo è il tempio che animo. Questo corpo mi racconta se ho superato i miei limiti, si lamenta se non lo ascolto, è la mia bussola in questa vita. In questo corpo mi oriento, mi assesto e mi rilasso. Quando mi rilasso tutto assume una luce diversa ed emerge in me la meravigliosa possibilità di disidentificarmi, di non prendermi troppo sul serio, di rimanere aperta all’azione, un’azione che non è rivolta solo a me, ma che è volta a quello che altre e altri come me stanno vivendo nel camminare su questa Terra.

 

In questi ultimi tre anni, con il mio privilegio di donna indiana cresciuta in Occidente, mi sono data il tempo di mettere nero su bianco esperienze, intuizioni ed esplorazioni in un libro dedicato alle donne e per le donne. Un libro che apprezza e accoglie le infinite parti in noi che danzano, che ci abitano e che ci invitano a creare la vita che vogliamo vivere, con i nostri tempi e modi…disidentificandoci da chi compie l’azione e dal risultato… Per un semplice piacere di Essere e condividere rimanendo in relazione. Uno scrigno che racchiude l’incontro fra più culture, fra le pratiche ancestrali e gli studi contemporanei e che vuole mostrare altre possibilità ben sapendo che non sono verità cristallizzate. Motivo di dialogo, confronto e movimento per una donna sempre più libera, rispettata e accolta. Da quando è stato messo il punto finale al libro, mi sono accorta che questo non è dell’autrice, io non sono il libro,  lo scrigno ha una vita tutta sua e mi sta mostrando attraverso rabbia, tristezza, paura e gioia che il viaggio verso la disidentificazione non è terminato, anzi, sembra che m’inviti a incarnare il mio corpo di donna con ancora più passione e dedizione, essere pienamente me senza essere attaccata a me.

Nadeshwari Joythimayananda

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