Nel panorama contemporaneo si manifesta un paradosso tutto sommato affascinante: da un lato, l’Occidente si colora sempre più di sfumature di ateismo, mentre dall’altro cresce l’interesse per spiritualità alternative e pratiche sciamaniche. Spesso confrontandomi proprio con e attraverso il “Mondo” Matrika sento di non capire bene io dove e come mi posiziono all’interno di questo dibattito. Ho letto il libro di Stefano De Matteis; “Gli sciamani non ci salveranno” proprio perché ero interessato a capire meglio come si sta strutturando da un punto di vista degli studi antropologici questo dualismo.
Senza ombra di dubbio e di fatto per anni il mio punto di vista materialista mi ha portato a salutare con ottimismo l’ateismo in crescita, ho sempre visto come positivo il fatto che la società occidentale si è progressivamente allontanata dalle istituzioni religiose tradizionali. L’ascesa del pensiero scientifico ha portato a una visione del mondo più materialistica e meno incline al soprannaturale. L’enfasi sull’autonomia individuale ha reso meno appealing l’idea di un Dio o tante divinità che dettano regole e precetti. Fino a qui tutto bene però poi nella vita ho cominciato a viaggiare, a relazionarmi con l’alterità e soprattutto ho cominciato a invecchiare e il materialismo razionalista ha cominciato piano piano a sgretolarsi in qualche sua parte.
Non sono attratto da nessuna religione in particolare e non trovo fascinazione per spiritualità alternative, ma diciamo che ho sempre meno certezze su cosa e quale sia il senso della vita.
La ricerca di senso in un mondo spesso alienante e materialistico, ha portato molti individui a cercare un senso più profondo nella spiritualità. Nuove forme di spiritualità e pratiche sciamaniche promettono di esplorare dimensioni alternative della coscienza e di connettersi con la natura. E sono tante e tanti quelle e quelli che si tuffano in questi mondi, alla ricerca di una salvezza possibile. E si perché spesso le spiritualità alternative offrono un approccio olistico al benessere che integra corpo, mente e spirito. Che sia vero o pure no, l’importante è la promessa. Ho tante domande su questo tema e forse nessuna risposta:
Come si evolverà questo dualismo?
Le spiritualità alternative possono colmare il vuoto lasciato dalla religione tradizionale?
Quale futuro per la fede in un mondo sempre più secolarizzato?
Il paradosso odierno rappresenta un terreno fertile per la riflessione filosofica, antropologica e spirituale.
La ricerca di spiritualità, in forme diverse e spesso contrastanti, evidenzia l’incessante anelito umano a trascendere la materialità e a connettersi con qualcosa di più grande di sé.
Come sottolinea Stefano De Matteis nel suo libro, questa ricerca di spiritualità può sfociare in un “doppio gioco” di appropriazione e banalizzazione delle pratiche sciamaniche. Da un lato, si tende a mercificarle, trasformandole in prodotti da consumare; dall’altro, le si svuota del loro significato originario, adattandole a una sensibilità occidentale spesso individualista e superficiale.
Emerge quindi la necessità di un approccio più consapevole e rispettoso di queste antiche tradizioni. Occorre evitare di ridurle a mere curiosità esotiche o a strumenti per la fuga dalla realtà. Piuttosto, dovremmo impegnarci a comprenderne la complessità.
Io e Stefano De Matteis che ho incontrato per porgli qualche domanda ci occupiamo di antropologia, quella disciplina olistica che studia l’essere umano in tutte le sue sfaccettature, dalla biologia al comportamento sociale, dalla cultura alla religione. In altre parole, l’antropologia cerca di rispondere alla domanda fondamentale: cosa significa essere umani? Difficile da dire sicuramente siamo esseri alla ricerca di senso.
Buongiorno Stefano, nel tuo libro sostieni che ci sono vari modi di essere sciamani e che molto spesso noi occidentali alla ricerca di una “salvezza” dalla via breve e individualista attraverso un doppio gioco di appropriazione e banalizzazione mercifichiamo e riscriviamo le pratiche e le prassi sciamaniche.
Nel libro lavoro intorno al tema dello sciamanesimo anche per analizzare alcune questioni che mi paiono essenziali. Te le elenco: l’uso che l’Occidente ha fatto delle culture native; la loro divulgazione e la mercificazione; la forza che quei saperi posseggono ancora oggi. Cominciamo dalla prima: le culture native sono state troppo spesso oppresse o definitivamente soppresse; oppure reinventate e riutilizzate per i “nostri” interessi. Nel libro metto a punto il concetto di contromodernità come una sorta di sistema di pensiero che ha caratterizzato o sostenuto le più orribili pratiche del potere politico e militare. Senza andare troppo lontano prendiamo un esempio ancora cocente, quello del mito della razza per come è stato utilizzato dal nazismo e dal fascismo che reggeva sulla rielaborazione di mitologie fasulle o maneggiate e su una simbolica fintamente atavica che faceva da fondamento e da alibi per le atroci azioni messe in atto.
Considero anche il lavoro di uno dei classici dell’antropologia, Marcel Mauss, che nel famosissimo Saggio sul dono, sulla base di una filologia a dir poco discutibile, offre una interpretazione del pensiero nativo maori, incarnato dalle riflessioni di Tamati Ranapiri, trasformandolo in un elemento costitutivo della lunga marcia verso il progresso della modernità. È importante riflettere su questi passaggi, come ha fatto ad esempio Marshall Sahlins, per capire come il pensiero occidentale si costruisce sull’alterità nativa e come la ingloba, addomesticandola.
A ben guardare, con lo sguardo ravvicinato dall’etnografia, parliamo di cose che respirano un’area di famiglia con l’imperituro successo di Tolkien – libri, film, siti, traduzioni… – oppure con la diffusione capillare e più recente del maghetto Harry Potter inventato dalla Rowling. Potremmo anche aggiungere che tutto questo si impasta con i consumi e le abitudini attuali che viaggiano sui binari privilegiati, e anche costosi, del naturismo, dell’esaltazione del bio, fino al trionfo dei masterchef vegani… che comunque porta lontano dall’occidente, visto come insufficiente a rispondere le domande dell’oggi, e che spinge a cercare forme di spiritualità alternative, a restare affascinati da religioni fai da te, quasi tutte rette sulla centralità dell’individuo, perdendo di vista il contesto e la ramificazione sociale e culturale che le circonda.
È interessante sottolineare che parliamo di una mercificazione occidentale che si regge sulla negazione dell’occidente: è la nuova strategia del potere tardo capitalista che vende e divora se stesso.
A tutto questo segue l’ultimo passaggio: le culture native continuano a parlarci e a dirci altro: il caso di Tamati Ranapiri prima citato è ancora una volta significativo. Il vecchio saggio tiene a sottolineare che il pensiero maori regge su alcune questioni fondamentali: dalla natura non si può solo prendere, non è un pozzo senza fondo, così come è considerata dall’Occidente, ma una fonte inestimabile che va non solo curata e custodita ma anche alimentata con pratiche di protezione e di restituzione. E poi, altra cosa fondamentale, il circuito degli scambi tra le persone non può essere retto dalla regola dello sfruttamento: nessuno può arricchirsi sulle spalle di altri uomini. Si capisce facilmente che elaborazioni come queste, sono state o obliate o rielaborate, “alleggerite” in formule sottoposte a profilassi che funzionassero bene per l’Occidente.
Il titolo del tuo nuovo lavoro è emblematico e perentorio. Perché gli sciamani non ci salveranno? Forse perché nel modo in cui “noi” rileggiamo lo sciamanesimo (depolicitizzandolo) diventa totalmente digeribile nella società del turbo capitalismo che ci opprime quotidianamente?
I modelli “classici” di sciamanesimo da cui sono partito rispondendo alla tua prima domanda non hanno nulla a che vedere con il mondo dei sedicenti sciamani che ho frequentato in questi ultimi due anni. Anche se sono accomunati in un processo unico: le forme di alterità vengono sottoposte a una profilassi che spesso le rende inoffensive, trasformandoli in modellini leziosi, figure frivole dove la loro stranezza diventa attrattiva. Soprattutto sono muti, in quanto gli è stata tolta la possibilità del contraddittorio.
Si tratta di un atteggiamento che oggi è rafforzato dal turismo etnico, che ha preso il posto degli zoo umani di un tempo: una volta le esposizioni universali importavano forme di vita “altre” per mostrarle ai benestanti-benpensanti in modo che la loro superiorità venisse confermata a colpo d’occhio. Oggi si paga per andare a vederli “a casa loro”: una frase che evoca la peggiore politica degli ultimi anni. Mi riferisco a un fenomeno che ha una portata culturale molto ampia: non è un caso che gli sciamanic tour siano richiestissimi. In un mondo di piccola borghesia diffusa, di livello culturale mediocre, ma con discrete disponibilità economiche, ci si distingue dalle “masse” che vanno a Sharm el-Sheikh, scegliendo mete “culturali”, i Dogon o gli sciamani, tanto che differenza c’è? Il mondo oggi è uno zapping vissuto in presa diretta.
E poi, come se non bastasse, a queste forme di esistenza unitamente alla parola vengono tolti i contenuti. Inoltre tutto ciò che c’è di cruento, di violento, di sacrificale è epurato. “Selvaggi” sì, ma educati!
La particolarità dello sciamanesimo che ho incontrato in Italia sta nel fatto che offre una via di salvezza dagli orrori del mondo unicamente nell’affermazione del Sé, nelle strategie individuali di miglioramento e nell’esaltazione di un individualismo che non si confronta con l’altro, vicino o lontano che sia. Che non mette in atto nessuna pratica collettiva e condivisa…
Lo sciamanesimo è intrinsecamente legato alla natura pensata e vissuta come una totalità integrata. Immergersi in ambienti naturali selvaggi e “incontaminati” permette di connettersi con le energie e gli spiriti che li abitano, favorendo l’apertura a stati di coscienza sciamanica. ( ci dicono gli sciamani)
Come sai e descrivi, molte pratiche sciamaniche includono danze, canti e rituali che richiedono movimento fisico e ripetizione. Questi atti possono facilitare l’entrata in trance, uno stato di coscienza alterato in cui è possibile accedere a mondi spirituali e dialogare con le entità che li abitano.
Spesso se non sempre lo sciamano si avvale di una profonda conoscenza del mondo naturale e di una sviluppata sensibilità percettiva. L’immersione in contesti selvaggi permette di affinare l’acuità sensoriale, aprendo la percezione a dimensioni sottili e invisibili. Di fatto affrontare le sfide fisiche e psicologiche che si presentano in contesti selvaggi può contribuire a rafforzare la resistenza mentale e fisica, qualità indispensabili per uno sciamano.
Spesso, le pratiche sciamaniche si svolgono all’interno di comunità di apprendimento e condivisione. La connessione con altri praticanti e la guida di un maestro esperto possono facilitare lo sviluppo delle capacità sciamaniche…
Questi saperi e questo fare è oggi un’esclusiva di quelle società che non hanno rinunciato alle loro conoscenze tradizionali, nonostante siano sottoposte alla ferocia del capitalismo e alle devastazioni dal consumismo. In più, vivono spesso gravi difficoltà, perché si tratta di esistenze a rischio in quanto vittime di tentativi di sterminio. Da questo punto di vista il caso amazzonico è significativo.
Ma, a parte questo, bisogna ragionare ancora su di un altro aspetto: mia madre ha ereditato da mia nonna delle conoscenze tradizionali, ma questo non faceva di lei una fattucchiera o una medicine woman, una donna medicina, come si usa dire oggi. Non basta il sapere generico a trasformare una persona in una figura importante e imponente come uno sciamano. C’è bisogno di un processo di riconoscimento, che è incastrato in un una costellazione culturale ben precisa e che spesso si realizza grazie a un sistema rituale spesso complicato, si rifà a mitologie condivise che permette ai soggetti di raggiungere il punto massimo nella legittimazione che sta nella condivisione pubblica dell’autorità sociale e culturale che gli viene riconosciuta. Da questo punto di vista è necessario rileggere il famoso dialogo tra l’antropologo Victor Turner e Muchona detto il Calabrone, per entrare nel vivo delle relazioni, e vedere il tutto dalla doppia prospettiva emica ed etica, secondo lo schema elaborato da Kenneth Piche.
Volevo anche chiederti se hai letto la famosa modesta proposta di Swift nel 1729 nella quale suggeriva di cucinare i bambini dei poveri per darli da mangiare ai ricchi. Condividendo i temi della conversazione che volevo fare con te con un caro amico, danzatore e scalatore, mi ha ricordato Pasolini che nella sua ultima intervista con occhiali scuri sul volto, si rivolge all’intervistatore e propone di mangiare gli insegnanti delle scuole.
Ogni cambiamento è anche un’opera di corruzione. Solo che meno riusciamo a programmare, a progettare e a prevedere quelli che saranno gli effetti delle trasformazioni, maggiore sarà il disastro che ci cadrà addosso. Anche perché ci sono dilemmi cui è complicato dare risposte semplici: credo che soprattutto oggi – ma forse oggi come ieri –, le risposte di cui abbiamo bisogno non possono che essere radicali. Partiamo dall’esempio che hai portato: Swift parlava provocatoriamente dei figli dei poveri; ma in realtà è quello che dal settecento in poi abbiamo continuato a fare, perché ancor oggi il mondo intero mangia, si nutre di altri figli di altri poveri: gli animali, che sono gli ultimi degli ultimi perché non sono protetti da nessun diritto e da nessuna garanzia.
Solo che questo, a sua volta, apre uno scenario duplice.
È risaputo che gli allevamenti intensivi contribuiscono pesantemente al disastro ambientale. Incarnano la peggiore brutalità del tardo capitalismo: ingozzare, anche ricorrendo alla chimica, degli animali perché crescano in fretta e pesino di più. Questo fa sì che la produzione lievita e invade i mercati delle grandi catene, i costi si riducono e il guadagno aumenti a dismisura.
Se noi ci limitassimo a bloccare solo questo meccanismo salveremmo gli animali ma, nello stesso tempo, ci toccherebbe dire alle famiglie del ceto medio-basso che sfamano quattro bocche con uno stipendio di mille, millecinquecento euro al mese, di far la spesa nei negozi bio dove tutto costa il triplo. Significherebbe portarli alla fame. O lasciarli nutrire di sola polenta, ad esempio, come avveniva al nord Italia nel dopoguerra con la crescita delle malattie documentate per malnutrizione.
Quindi a chi faremmo del male? Indubbiamente è necessario uscire da questa logica, ma lo si può fare solo con un cambiamento radicale: non più animali, ma anche stipendi adeguati, gestione del tempo, diversa organizzazione dei sistemi di produzione domestici, rifunzionalizzazione dell’intera organizzazione sociale su altre basi.
Una cosa questa che richiederebbe una vera e propria rivoluzione che ci riguarderebbe tutti: perché dovremmo cambiare sistemi di pensiero, modelli di comportamento, abitudini individuali e collettive, organizzazione di vita.
In questi anni, dove il simbolo dominante nell’immaginario occidentale ben prima della pandemia era masterchef, ho fatto una piccola battaglia per contrapporre a questa ingordigia smisurata un sano digiuno, un contenimento non solo delle calorie ma anche dei consumi. Non posso dire di aver avuto molti seguaci. E anche questo è indicativo. Perché questa sorta di eco-dieta imponeva anche un aspetto pedagogico fondamentale: disabituarsi dall’avere tutto, rinunciare al fatto che nei negozi possiamo comperare ogni cosa. Il punto di vista stagionale è il più facile, ma anche l’organizzazione di una dieta diversa dall’ingozzarci di cadaveri non è una cosa facile: una sana preparazione al vegetarianesimo dovrebbe cominciare dalla scuola primaria. Ma si capisce che questo non può essere fatto solo con l’eliminazione degli allevamenti intensivi, produrrebbe solo altro disagio…
Oggi gli attuali 30/40enni si sentono persi in un mare di incertezze e forse proprio come Pinocchio che si addormenta coi piedi sul fuoco e poi non cammina più… sentono l’odore di bruciato, della loro carne bruciata e si rendono conto che è il loro corpo… e paralizzati, pieni di paure che non sanno come affrontare, cercano un Geppetto che faccia la magia.
Solo che Geppetto è un artigiano, un uomo del fare, un creatore, un mastro d’ascia, che non fa magie. E i pezzi bruciati sono tanti, solo che Amazon non vende i ricambi.
Questo rappresenta una questione centrale perché parliamo di nuovo di una mercificazione occidentale che si regge questa volta sul divorare se stessa, è la nuova strategia cui accennavo sopra: il potere tardo capitalista vende e mangia se stesso con uno strano effetto: sì, è vero, porta avanti la stessa pratica di autodistruzione della natura che ha avviato secoli fa, ma non mira più alla totale distruzione dell’umanità, ma la sua trasformazione in macchina. Una situazione che trova terreno fertile, perché incontra una sorta di volontà diffusa e generica dell’intera umanità di trasformarsi in macchina…
Su questi temi abbiamo due considerazioni importanti fatte da Cesare Garboli (e che ho citato in Il dilemma dell’aragosta. La forza della vulnerabilità): gli uomini in qualche modo aspirano alla loro trasformazione in macchine principalmente per un motivo: «per vincere la paura della morte»; ma c’è anche un’altra ragione, sostiene ancora Garboli, che ci spinge su questa strada e ci attrae come «un’oscura fascinazione», e riguarda proprio le questioni della vita quotidiana e della capacità di relazione tra le persone: «Per farla finita con quel pasticcio troppo emotivo che è il vivere». Ecco un modo per scrollarsi di dosso tutte le contorsioni del mondo emozionale, gli impacci della sfera affettiva che tanto ci coinvolgono e molto spesso ci affliggono.
D’altro canto, però, il progetto di questo mondo capitalistico in cui viviamo, offre anche una alternativa: quando gli uomini non si trasformano in macchine sono queste che li attraggono e li risucchiano come un vortice.
Pensa alla più significativa invenzione che c’è stata con l’inizio del nuovo secolo che ha avuto una ricaduta quasi rivoluzionaria dal punto di vista “sociale” e che è stata presentata come un cambio epocale, al punto da essere venduta come “una magia”. E che in realtà ha trasformato il mondo. La rappresentazione che ne dava al lancio il creatore-venditore era quella di una svolta capace di riportare l’uomo alla sua essenza grazie all’invenzione di «un prodotto più intelligente di ogni altro dispositivo visto finora e molto facile da usare». Un prodotto della tecnologia talmente avanzato e così “intelligente” da competere con l’uomo. E non solo. Perché funziona grazie al «miglior dispositivo di puntamento del mondo. Un dispositivo con il quale siamo nati, tutti quanti. Siamo nati con dieci di questi dispositivi… Useremo le dita. Lo toccheremo con le dita».
Sono parole di Steve Jobs alla presentazione dell’iPhone a San Francisco il 9 gennaio del 2007. E chiudeva confermando che non è un semplice oggetto di consumo ma «è come una magia». Qual è lo strillo del venditore? Un atto straordinario e fuori dal comune: tornare a usare le dita. Riappropriarsi della manualità tanto evoluta tecnologicamente da essere facile da usare. Un modo elementare di risolvere le difficoltà.
Solo che questo ha avviato una sorta di rivoluzione tecnologica e commerciale che ha cambiato la vita delle persone e la loro socialità. Non è un caso che tutta l’ultima “generazione” di device tecnologici (dagli smartphone ai computer a molte delle strumentazioni per la casa, a partire dal Bimbi) non prevedono di essere muniti del classico manuale di istruzioni da studiare, non abbiamo bisogno di un qualsivoglia foglietto illustrativo da consultare; oggi l’intera produzione è orientata allo user friendly: tutto è predisposto per funzionare in automatico e in maniera semplificata. Ogni cosa si risolve meccanicamente e intuitivamente, ciascuna di queste apparecchiature è immediatamente comprensibile mentre la usiamo, senza alcuno sforzo o impegno eccessivo…
E questo è un problema molto serio, perché questa meccanicità semplificata delle operazioni tecniche ci porta ad abdicare alla capacità di imparare dalla realtà. E quando lasciamo il Bimbi per i bambini, ci accorgiamo che le esperienze della vita sono molto più complesse di quelle che ci vengono offerte dalle macchine o che si vedono rappresentate sullo schermo, piccolo, medio o grande che sia.
Il fatto che il mondo non sia al nostro servizio come lo sono diventate le macchine o gli strumenti che adoperiamo quotidianamente ci fa sentire scoraggiati. E inadeguati, perché, al contrario, quando ci si misura con la vita ci si accorge che questa è complicata, molto complicata.
«La società attuale – scrive Simone Weil già nel 1934 – non fornisce, come mezzi di azione, altro che macchine per schiacciare l’umanità», oppure «Le macchine non funzionano per permettere agli uomini di vivere, ma ci si rassegna a nutrire gli uomini affinché servano le macchine». Niente di più profetico.
In tutto questo c’è un rischio ancor più grave e che è implicito nell’uso sconsiderato che si fa delle macchine: quello di perdere l’esperienza. Ed è questa che guida le nostre scelte. Perché, come ha scritto Günther Anders «l’uomo non prevede il mondo… non può anticiparlo nella sua determinazione, piuttosto deve imparare ‘après coup’, a posteriori, ha bisogno dell’esperienza». In tal modo la nostra disponibilità al rischio e a metterci alla prova diventa sempre più impraticabile. Soprattutto in un mondo che non è facilitato dalla tecnologia, ma dove è la tecnologia stessa che tende a sostituirsi al mondo in funzioni non secondarie. E in più funge da passatempo, offrendosi continuamente come aggiornamento e adeguamento ai “nuovi” modi di comunicare.
Sempre nella condivisione con il mio amico danzatore e scalatore, pensavamo all’ articolo famoso di Mark Fisher «Good for Nothing», troviamo abbastanza interessante in questo senso, la parte dove cita Origins of Unhappiness di Smail (…) Come una perdita di «territorio sociale» sia legata alla perdita di identità e dunque di capacità di sentirsi felici. Non essendoci più strutture l’individuo incolpa se stesso e coltiva una certa indulgenza verso la propria alienazione. Ti cito il passo: «Ciò che Smail definisce il “volontarismo magico” – cioè la convinzione che ogni persona ha il potere di diventare ciò che vuole essere – è l’ideologia dominante e la religione non ufficiale della società capitalistica contemporanea, sostenuta sia da “esperti” dei reality televisivi, che dai guru del business, che dai politici. Il volontarismo magico è sia l’effetto che la causa del più basso livello di coscienza di classe che la storia ricordi. È l’altra faccia della depressione – la cui convinzione di fondo è che noi siamo gli unici responsabili della nostra miseria e perciò la meritiamo».
Beh, questa è l’essenza del postmodernismo (che ho criticato in Le false libertà. Verso la postglobalizzazione). L’idea che possiamo diventare ciò che vogliamo, che siamo fatti di tante identità che si realizzano a seconda dei momenti, dei luoghi e delle relazioni… Un rischio che nasce, secondo me, da una lettura affrettata e distorta di un libro molto importante di Erwin Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, che spinge in quella direzione fin dal titolo che è stato dato a quasi tutte le traduzioni europee, La vita quotidiana come rappresentazione: siamo tutti su un palcoscenico e interpretiamo parti diverse: quella del padre, del figlio, del marito, dell’amante, del professore… e cambiamo maschera ad ogni ruolo… formulando così l’idea che sotto quelle maschere non ci sia altro. Non è vero, sotto c’è la vita e la storia, non solo quella presente ma anche quella passata di tutti coloro che mi hanno preceduto e che mi fanno essere quello che sono. Sotto c’è la struttura complicata e complessa dell’individuo… e che va ben oltre la datità.
Ultimissima cosa, sarebbe interessante discutere del capitalismo come continuazione del Cristianesimo e di un’idea di Soggetto (W. Benjamin, 1921) centrata sull’individuo come scarto del suo successo, dunque l’impotenza che ne deriva è conditio sine qua non: forse solo la morte ci può salvare? Che sembra un paradosso e lo è. In questo senso la morte (intesa come pratica di ciò che resta) è una grande medicina? Come ti poni di fronte a questo?
Non ci sono dubbi che il Cristianesimo e il Capitalismo in questi secoli sono andati a braccetto. E che hanno fondato una soggettività fortemente individualista. Louis Dumont ce l’ha spiegato molto bene (in Essais sur l’individualisme. Une perspective anthropologique sur l’idéologie moderne). Si riesce ad uscire da questa logica?
Un regime del tutto inumano come il nostro produce esseri che in realtà sonno incapaci anche solo di immaginare una società umana, perché quel regime «modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi, tanto gli oppressi quanto gli oppressori».
D’altro canto, lo stesso Freud attraverso la costruzione teorica della pulsione di morte, si è interrogato a lungo sulla possibilità dell’uomo di opporsi alla distruttività generalizzata. E spesso è lui stesso, l’uomo, ad essere l’artefice primo dei processi di distruzione e di annullamento.
D’altro canto, la domanda viene spontanea: ci sono mai state società che hanno impiantato un sistema comunitario dove l’altro è considerato una risorsa imprescindibile? Retto da una forma di condivisione positiva? In questa “frizione” il pensiero comunitario di Goodman e le alternative formulate da Simone Weil si incontrano. Il tutto nella volontà di costruire qualcosa a misura dell’uomo.
«La società meno cattiva – scrive Weil – è quella in cui maggior parte degli uomini si trova per lo più obbligata a pensare mentre agisce, ha le maggiori possibilità di controllo sull’insieme della vita collettiva e possiede la maggiore indipendenza».
Ma comunque una possibile risposta al realismo tragico della tua domanda ce l’ho. E vive di due esempi, uno teorico e uno pratico, uno riflessivo e uno narrativo.
Il primo me l’offre Ernesto de Martino. Viene dalle riflessioni ultime relative alle apocalissi culturali, quando combinava magistralmente etnologia, storia delle religioni e filosofia, in un dialogo serrato con l’esistenzialismo. Non solo in situazioni estreme e in momenti crisi, ma anche nella vita quotidiana in genere lo sforzo che noi tutti facciamo è quello di opporci alla morte e alla distruzione, sforzandoci di costruire un mondo, di realizzare pratiche di esistenza possibili. Passando così dalla materia inerte alla vita. A tutto questo dà un nome complicato: ethos del trascendimento. È quella forza che ci governa e trasforma l’involontario in volontario. Che accende azione e pensiero. Conduce al fare. Ed è sempre qui che torniamo.
L’altro esempio, quello narrativo, viene da Ryszard Kapuscinski: in uno dei suoi straordinari quanto terribili reportage di guerra, narra che alla fine di un conflitto, con la morte che incombe su tutto, una donna sistema uno spazio, l’attrezza con quel poco che riesce a trovare, accende un fuoco per far da mangiare. Per chi c’è.
Entrambi ci dicono che salvo i casi di estreme patologie, la spinta a inseguire la vita è nelle donne e negli uomini più forte di ogni tensione alla distruzione. Freud mi perdoni ma l’antropologia mi porta, una volta tanto a contraddirlo. Questo per quanto riguarda gli uomini e le donne, la vita vissuta e le pratiche quotidiane dell’esistenza. Altre e più tragiche sono le forme di distruzione che troviamo negli stati, nella politica e nel denaro. Gli esempi sotto i nostri occhi non mancano. Ma qui il discorso diventa un altro.