Se il pensiero sorge, sii presente in quello stato;
se il pensiero non sorge, rimani ugualmente presente.
Allora non c’è differenza tra i due momenti.
Chogyal Namkhai Norbu – Il Cristallo e la Via della Luce

La mente e il corpo non sono separati, però, per accedere ad un benessere che non è momentaneo, effimero e superficiale, che non dipende dal ”mi-piace” e dal “non-mi-piace”, è essenziale familiarizzarsi con la mente.

Questo scritto si fonda sulla pratica personale di alcune tradizioni contemplative del Buddhismo Tibetano, quindi orientali, però certamente anche in occidente si è riflettuto in modo approfondito sulla mente: basti pensare che esiste una sezione specifica della filosofia che si chiama appunto filosofia della mente, in cui, tra l’altro, si dibatte da secoli sul cosiddetto problema mente-corpo.
Anche il mondo scientifico occidentale ha iniziato ad accorgersi dell’importanza della mente: è sufficiente qui ricordare il vasto campo delle neuroscienze; inoltre ogni anno vengono prodotte centinaia di ricerche dalle più prestigiose università e centri di ricerca nel mondo sulla meditazione e sugli effetti terapeutici delle pratiche contemplative, tanto che sono stati coniati termini appositi come neuroscienze contemplative.
In questo ambito scientifico uno degli studiosi occidentali più interessanti è certamente Daniel Siegel, il fondatore della Neurobiologia Interpersonale (Interpersonal Neurobiology). Ecco come nel libro “Mappe per la mente” egli definisce appunto la mente:
“Mente” si riferisce all’esperienza soggettiva interiore e al processo della coscienza o consapevolezza. Inoltre la mente può essere definita come il processo che regola i flussi di energia e informazioni nel corpo e nelle relazioni, un processo emergente e auto-organizzantesi che dà origine ad attività mentali come l’emozione, il pensiero e la memoria. Questi aspetti della mente – l’esperienza soggettiva, la consapevolezza e l’essere un processo incarnato e relazionale che regola i flussi di energia e informazioni – sono tutti egualmente importanti nonché interdipendenti.
E poi continua con la seguente affermazione interessante sulla consapevolezza:
La consapevolezza è un aspetto fondamentale del modo in cui usiamo la mente per cambiare il corso della nostra vita, per apprendere nuove abilità e persino per cambiare la struttura del cervello, nonché per riflettere su ciò che ha significato. La consapevolezza rende possibili la scelta e il cambiamento.

Per fortuna non occorre essere un neuroscienziato o divenire uno studioso di filosofia della mente, e nemmeno un erudito di Buddhismo o di Advaita Vedanta: familiarizzarsi con la mente non è un’attività concettuale, non passa attraverso la riflessione filosofica o la lettura di libri, anche se leggere libri o articoli come questo, oppure riflettere sulle proprie credenze e condizionamenti mentali può, in generale, essere utile.
Per scoprire il funzionamento della mente, come essa si lega o si libera, come sorge la sofferenza e come cessa, occorre osservare direttamente la nostra mente: nell’osservare direttamente noi stessi possiamo scoprire che ci sono tre aspetti fondamentali:

1. Quando ci accorgiamo che sono presenti pensieri-emozioni, definiamo MOVIMENTO questo stato-funzionamento della mente, cioè constatiamo che la mente è IN-MOVIMENTO;
2. Per contro, chiamiamo QUIETE lo stato-funzionamento della mente quando non sono presenti pensieri-emozioni, cioè constatiamo che la mente è IN-QUIETE;
3. Ciò-che-conosce sia la quiete che il movimento lo definiamo CONSAPEVOLEZZA.

Anche se ovviamente sono state proposte, sia in occidente che in oriente, svariate mappe e definizioni della mente e del suo funzionamento, tutto quello che ci serve dal punto di vista di una pratica contemplativa, dal punto di vista di una conoscenza esperienziale della mente, è “solamente” dare continuità al riconoscimento della quiete e del movimento, imparando ad integrare la quiete nel movimento e il movimento nella quiete, rilassandoci nella nuda consapevolezza.
A prima vista potremmo credere che questi due stati mentali che possiamo definire con quiete, silenzio, stato calmo da una parte, e, dall’altra, movimento, attività, “rumore”, siamo qualcosa di separato e contrapposto, ma in realtà non è così. La quiete è quiete in relazione al movimento: senza il movimento non sarebbe possibile definire e riconoscere la quiete. Il movimento è movimento in relazione alla quiete: il movimento di pensieri-emozioni sorge e ritorna alla quiete, e senza la quiete non sarebbe possibile definire e riconoscere il movimento. Quindi si può scoprire nella propria esperienza come quiete e movimento non sono due stati contrapposti, separati, uno positivo, da ricercare e l’altro negativo, da rifiutare: ma sono due polarità complementari, reciprocamente e dinamicamente in relazione, che si manifestano ambedue nello spazio aperto della consapevolezza.
Nella tradizione dello Dzogchen si dice che “la quiete (lo stato calmo) è l’essenza della mente e il movimento è la sua energia”, cioè quiete e movimento sono inseparabili: per chiarirlo si usano le metafore del “mare e le sue onde” oppure del “sole e i suoi raggi”. Allo stesso modo anche consapevolezza e contenuti della consapevolezza sono inseparabili: essere in grado di riconoscere e differenziare la consapevolezza (o coscienza) dai suoi contenuti (la totalità delle esperienze dei 5 sensi e della mente) è un aspetto importante del cammino contemplativo: questo non vuol dire però che si possano separare, infatti sono originariamente non separati, fin dall’inizio non c’è dualità fra soggetto che conosce e oggetto conosciuto.
Dal punto di vista della pratica contemplativa, quando ci si rilassa nella presenza consapevole, senza interferire, senza fare nulla, mantenendo un continuo riconoscimento della quiete e del movimento, allora si manifesta una spaziosa chiarezza che è libera sia dalla quiete e sia dal movimento, e nello stesso tempo li accoglie e li comprende entrambi. Quando invece non riconosciamo la quiete come quiete e il movimento come movimento, ma attraverso il trattenere e il respingere, attraverso l’attaccamento e l’avversione, interferiamo con il naturale dispiegarsi della mente, allora diventiamo identificati, bloccati, perdiamo il nostro stato naturale e non siamo più liberi.

Tulku Urgyen Rinpoche lo ha spiegato molto efficacemente nel modo seguente:
Lasciate soltanto cha la vuota consapevolezza continui nella sua nudità. Se lo permettete, proprio quella è la mente di tutti i Buddha.
Prima dovete capire e assaporare quello stato; poi dovete realizzarlo realmente. Seguendo questa via, prima riconoscete la natura e poi vi allenate sviluppando la forza del riconoscimento, e, alla fine, ottenete la stabilità. Questo è tutto. Riconoscete il momento in cui siete svegli, in cui non siete coinvolti negli oggetti percepiti, in cui la mente che percepisce è non impegnata, senza occupazione, libera. Non siete contaminati da nessuna emozione. Quando la sveglia presenza originaria è completamente presente, pienamente realizzata, è il significato effettivo della parola Buddha, il puro e perfetto stato risvegliato. La via del risveglio consiste nel rendere questo stato abituale e stabile.
Prima lo riconoscete, poi vi allenate e lo stabilizzate: ed ecco l’illuminazione. Avete raggiunto la conoscenza trascendente, sull’altra sponda, al di là della sponda della conoscenza dualistica.

Sebbene la presenza consapevole sia istantanea, immediata, e non ci sia nulla da sviluppare o costruire, allo stesso tempo, come evidenziato nella citazione precedente, dal punto di vista del praticante, nel cammino dello Dzogchen si distinguono tre “momenti” che rappresentano una sorta di fiorire naturale della comprensione. All’inizio c’è il riconoscimento, cioè si percepisce direttamente e chiaramente quando la mente è presente, sveglia, e nello stesso tempo libera, vuota, non impegnata; poi ci si allena mantenendo tale riconoscimento sia nella meditazione formale e sia nella vita quotidiana, e infine si manifesta la stabilità del riconoscimento, cioè dimoriamo stabilmente (o con una sempre maggiore continuità) in una consapevolezza spaziosa e ricettiva che è naturale e spontanea, non legata allo sforzo e all’intenzione.
A questo punto potrebbe sorgere una domanda del tipo “quando osservo la mia mente sono consapevole quasi esclusivamente del movimento, cioè dell’attività della mente che si manifesta con un rincorrersi e un accavallarsi di pensieri-emozioni che spesso mi portano via, spesso sono perso nel movimento dei pensieri; solo molto raramente sperimento brevi momenti di quiete e sono veramente presente: cosa devo fare?”
È una domanda del tutto plausibile, a cui è possibile dare risposte anche molto diverse, a seconda del punto di vista e della tradizione spirituale a cui si appartiene, piuttosto che della persona reale che pone la domanda. In questo contesto poniamo la domanda non certo per fornire una risposta completa ed esaustiva (ammesso che esista), ma per dire che una possibile “soluzione” che si può esplorare nella propria pratica meditativa è quella di non fare nulla, possiamo imparare a non fare nulla e, contemporaneamente, a rimanere non-distratti, svegli, presenti.
Rodney Smith, nel suo libro “Awakening, a paradigm shift of the heart”, lo ha espresso in questo modo interessante:
Noi abbandoniamo il rumore dei nostri pensieri nel silenzio, non aggiungendo nulla all’esperienza.
Che potremmo anche parafrasare dicendo “Noi abbandoniamo il movimento della mente nella quiete, non aggiungendo nulla all’esperienza”.
Kosho Uchiyama Roshi, un maestro Zen Giapponese del secolo scorso, utilizzava una immagine molto eloquente: “aprire la mano del pensiero”.
Si può esprimere la stessa cosa in un modo più tradizionale, ricordando il sintetico insegnamento impartito da Tilopa a Naropa:
Figlio, non sei legato dalla percezione, ma dall’attaccamento. Perciò Naropa recidi l’attaccamento.
Soprattutto se non abbiamo alcuna esperienza contemplativa queste istruzioni ci possono sembrare, a prima vista, contro intuitive e paradossali: ma è proprio così? Forse abbiamo fatto l’esperienza di sentirci agitati, e di cercare di bloccare i pensieri che ci agitavano: abbiamo avuto successo, oppure lo sforzo stesso di scacciare i pensieri li ha alimentati e incrementati?
Quando osserviamo direttamente la mente con la mente, possiamo accorgerci che non ci sono due menti: non c’è una mente che controlla e che con la volontà e lo sforzo rende tranquilla l’altra mente che è agitata. La mente che si agita è la stessa mente che si tranquillizza, la mente che si tranquillizza è la stessa mente che si agita. La mente che si lega è la stessa mente che si libera, la mente che si libera è la stessa mente che si lega.
Una volta che abbiamo imparato a dimorare nella consapevolezza ricettiva, allora tutto il movimento, tutta l’attività della mente si auto-libera, cioè si libera spontaneamente, non facendo nulla; viceversa, proprio perché non facciamo nulla, cioè non alimentiamo, non sviluppiamo o espandiamo i pensieri e, contemporaneamente, non facciamo resistenza, non cerchiamo di cambiarli o di sbarazzarci dei pensieri, ma ci rilassiamo nella spaziosità e immediatezza della presenza, allora la mente si auto-libera.
Chogyal Namkhai Norbu si esprime in questo modo:
Non sono le circostanze, che sorgono come visione karmica, a condizionare la persona; quello che condiziona è il proprio attaccamento. Se questo attaccamento deve essere eliminato nel modo più rapido ed efficace, deve entrare in gioco la spontanea capacità di auto-liberazione della mente.

Quiete, silenzio, tranquillità, vacuità sono parole; movimento, attività, rumore, contenuti mentali sono parole; coscienza, consapevolezza ricettiva, presenza istantanea, continuità e stabilità del riconoscimento sono parole.
Se non facciamo esperienza diretta di queste parole, se non le attualizziamo, se il significato di queste parole non diventa “carne”, allora rimangono parole morte che ingombrano e appesantiscono inutilmente la mente.
Se le sperimentiamo, le assaporiamo con sempre maggiore chiarezza, se diventano parte del nostro vivere quotidiano e, a qualche livello, informano e orientano la nostra vita, allora queste parole diventano vive, vitali, feconde e ci permetto di vivere con maggiore benessere e serenità, e ci riconducono verso il nostro stato naturale, ciò che siamo più autenticamente.
Per finire, esprimo con le parole di Achan Chah, l’augurio che tutti noi si possa riscoprire quella saggezza che nasce quando la mente è simile ad “una corrente d’acqua ferma”.
Ecco, quando arrivate dove il pensiero non vi può portare, è proprio allora, in quella quiete, che si sviluppa la saggezza. In quel momento la mente è simile ad una corrente d’acqua, eppure è ferma. Sembra praticamente immobile, eppure scorre. Per questo dico ‘una corrente d’acqua ferma’. In questa mente può nascere la saggezza.

Pietro Thea

pietro.thea@sedendoquietamente.org

www.sedendoquietamente.org

Questo breve scritto è una personale riflessione che fa riferimento, da una parte alla mia pratica contemplativa, e dall’altra nasce da tutti gli insegnamenti di Dzogchen e Mahamudra ricevuti; inoltre esso è stato innescato dalla lettura di un testo del maestro Tibetano Mipham Gyatso tradotto da Giuseppe Baroetto che ringrazio: di seguito i link alla sua traduzione e commento
https://giuseppe-baroetto.blogspot.com/2015/10/punto-essenziale.html?m=0
https://www.academia.edu/27871158/Mipham_IL_PUNTO_ESSENZIALE

Queste riflessioni sono una dedica e un ringraziamento al maestro Chogyal Namkhai Norbu che mi ha introdotto direttamente alla natura della mente e mi ha consentito di conoscere le tradizioni contemplative Tibetane dello Dzogchen e della Mahamudra. Sebbene senza il suo insegnamento non avrei potuto comporre questo scritto, esso però non è legato a nessuna particolare tradizione, ma si basa sulla mia comprensione e sensibilità corrente.

Pur essendo consapevole dell’importanza delle tradizioni, personalmente faccio riferimento ad una spiritualità diretta, esperienziale, sperimentale, non settaria e non dogmatica, che si fonda sulla fiducia nella propria esperienza diretta, unita ad continuo raffinamento della comprensione e del modo di vedere.

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