by Jerry Diamanti
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Attraverso l’indagine narrativa somatica, questo studio indaga le esperienze incarnate vissute e le comprensioni di individui che si identificano come oppressi. Esplora l’impatto somatico della loro oppressione – come incarnano le condizioni sociali oppressive attraverso le loro interazioni non verbali e il modo in cui l’oppressione influisce sul loro rapporto con il proprio corpo. Le narrazioni dei partecipanti suggeriscono che esiste una relazione tra il somatico, gli effetti del trauma, le risposte incarnate all’oppressione e che il corpo è un’importante fonte di conoscenza e potere nel risolvere l’impronta traumatica dell’oppressione. Queste nuove intuizioni sono collegate ai settori in via di sviluppo della psicologia somatica, della traumatologia e delle implicazioni per il lavoro sulla diversità discusse nella psicoterapia corporea.
La ricerca discussa in questo articolo esplora l’impronta somatica dell’oppressione – il modo in cui incarniamo condizioni sociali oppressive attraverso le nostre interazioni non verbali e il modo in cui l’oppressione influisce sul nostro rapporto con i nostri corpi. Lo studio integra le prospettive somatiche con l’indagine narrativa (Clandinin e Connolly, 2000) a indagare come l’oppressione viene messa in atto e riprodotta attraverso il corpo, utilizzando un approccio “body stories”, (Johnson, 1997; Olsen, 1991; Sullivan, 1995) per accedere e documentare le esperienze e le comprensioni incarnate vissute da cinque donne che si identificano come oppresse. Questa conoscenza viene quindi inquadrata nel contesto della psicoterapia e della pratica psicoeducativa, con particolare enfasi sulla comprensione di come possa l’impronta somatica dell’oppressione essere collegata alle nostre comprensioni emergenti del ruolo del corpo nella mediazione dei traumi e come gli psicoterapeuti somatici possono integrare più efficacemente le questioni della diversità e della giustizia sociale nel loro lavoro.
Una narrazione introduttiva
Per molti anni – ben oltre i vent’anni, in effetti – avrei insistito con chiunque mi avesse chiesto qualcosa a tal riguardo che non ero oppress*. Sono cresciut* in una famiglia di persone gentili e introverse con un bizzarro disprezzo per le norme sociali e credevo che la mia educazione unica mi aveva vaccinato con successo contro il tipo di oppressione sessuale e di genere che sapevo altre donne queer hanno sperimentato. Ad esempio, nessuno dei miei genitori mi ha trattato particolarmente come una ragazza, così com’ero durante la crescita. Non che mi trattassero nemmeno come un ragazzo. Piuttosto, mi hanno semplicemente incoraggiat* ad essere me stess*, a identificarmi e articolare le mie preferenze, fare le mie scelte e assumermi la responsabilità delle mie azioni. Me lo hanno insegnato i miei genitori con l’esempio e l’istruzione di essere più autoreferenziat* che socialmente referenziat*. Mi chiedevano sempre cosa pensassi, così ho imparato quello che pensavo; e di conseguenza, mi conoscevo molto meglio di quanto conoscessi il mondo.
È stato solo quando ho iniziato la scuola che ho iniziato a riconoscere quanto questo mi rendesse diverso e come la combinazione di calma, gentile affidabilità e autonomia sicura di sé mi poneva al di fuori delle categorie di genere tradizionali – Non ero davvero come le ragazze (troppo forte di mente), e non ero molto come i ragazzi (troppo riservat*). Inoltre significativamente, ho capito in qualche modo che non potevo scegliere tra essere “proprio come i ragazzi” o “proprio come le ragazze” senza sacrificare qualcosa di essenziale per me stess*. Quindi non l’ho fatto. Con il tacito ma incondizionato sostegno della mia famiglia e una serie di amici che erano attratti dalla mia capacità di conoscere la mia mente e il mio relativo disprezzo per cosa altre persone pensavano, rispetto al fatto che io istintivamente rifiutassi di “fare sesso” come ci si aspettava. Ovviamente mi sono rifiutat* di fare molte cose nel modo in cui ci si aspettava – non con un desiderio particolare di ribellarmi, ma semplicemente perché non mi è mai successo di fare diversamente.
L’eccentricità che si è sviluppata naturalmente dalla scelta continua di seguire la mia via di fronte a una serie infinita di piccole ma significative scelte sociali, pervase tutti gli aspetti della mia identità. “Non adatt* ” è diventato un elemento così intrinseco della mia esperienza di vita quotidiana che è passato relativamente inosservato, e non è stato considerato da me o dalla mia famiglia come intrinsecamente problematico. Certamente, gli effetti di dover costantemente scegliere tra essere fedele a me stess* e appartenere a un gruppo sociale non sono stati analizzati, problematizzati o politicizzati in modo sostanziale. Era solo “il modo in cui ero” e “il modo in cui stavano le cose”. Sostenut* dalla cura e compreso da una piccola cerchia di spiriti affini, il costo della mia dissidenza all’adattarmi rimase non esaminato fino a molto tempo più avanti nella mia vita.
Anche se apprezzo profondamente le sfumature del privilegio alla base delle affermazioni precedenti – tuttavia ho vissuto in un contesto in cui la mia oppressione non era tanto una figura viva e dolorosa, ma piuttosto un terreno invisibile ma pervasivo – Devo anche riconoscere le sfide uniche che mi ha presentato. Una delle donne che ho intervistato per questo studio ha osservato che sentiva che uno degli aspetti più distruttivi di quest’abuso celato era la sua capacità di rendere le vittime ignare del danno che infliggeva loro, e il mio processo di rivendicazione della conoscenza incarnata persa nell’oppressione riecheggia quell’esperienza.
Come ho notato in precedenza, questo processo di rivendicazione non è iniziato davvero fino a quando non ho raggiunto i vent’anni attraverso una profonda immersione nella formazione in psicoterapia che integra il lavoro sul corpo e una drammatica esposizione alle idee e pratiche del femminismo radicale. Come student**** in un programma di formazione professionale in Gestalt Therapy, sono stat* espost* all’intera gamma di approcci alle corazze che avevano influenzato lo sviluppo della Gestalt – bioenergetica, la tecnica Alexander, il Feldenkrais, il Rolfing e il massaggio, per esempio – e questa esposizione è stata tanto esperienziale quanto teorica. Più o meno nello stesso periodo, ho formato un gruppo di donne con alcuni dei miei amici ed amiche più car*, e tutti i Martedì sera per due anni molto pieni, abbiamo lottato (a volte letteralmente) con l’impatto personale e interpersonale di vivere come donne in una società patriarcale. Ho anche iniziato a lavorare come consulente presso un centro di accoglienza per giovani donne senzatetto, dove ho assistito in prima persona alla devastazione del corpo, della mente e dello spirito perpetrata dalla violenza contro le donne. La mia prima notte di servizio al rifugio, ho passato un’ora a pulire lo sporco dai graffi alla faccia di una ragazza di 16 anni dopo che questa è stata trascinata sul marciapiede durante un aggressione omofobica da un bar LGBT locale.
Dopo anni passati ad accettare tranquillamente l’idea che il mio rifiuto di conformarmi alle aspettative della società fosse una mia Scelta individuale (e quindi responsabilità mia), ho cominciato a rendermi conto di quanto fossero poche le scelte veramente soddisfacenti rispetto al genere e alla sessualità. Per la prima volta, ho iniziato a chiedermi perché fossi stat* ripetutamente costrett* a rifiutare una norma sociale (comportarsi in un certo modo, vestirsi in un certo modo, rispondere agli uomini in un certo modo) e accettarne le conseguenze (alienazione ed emarginazione), piuttosto che sentirmi liber* di scegliere tra una gamma di possibili opzioni o creare la mia. La teoria femminista radicale mi ha aiutato a inquadrare il mio disagio e la mia disconnessione come sistemici e politici, piuttosto che semplicemente come il dilemma esistenziale di un introvers*. Anche se pochissime femministe lo erano parlando del corpo all’epoca (Price e Shildrick, 1999), il lavoro con il corpo in psicoterapia mi ha fornito una ricca fonte di materiale che si collegava in modo chiaro e diretto con le questioni dell’oppressione. Le lampadine stavano facendo luce fuori – stavano là fuori nel mio corpo, non solo nella mia testa.
Questi lampi di intuizione hanno illuminato un paesaggio somatico molto più danneggiato dagli effetti dell’oppressione di quanto avrei altrimenti immaginato.
Dal momento in cui ho intrapreso una formazione professionale aggiuntiva in danza / terapia del movimento, lavoro psicodrammatico sul corpo, intervento in stati di crisi e traumatologia, ho iniziato a riconoscere il modello di impatto che riecheggiava in ciò che stavo vedendo nella mia pratica clinica lavorando con sopravvissuti a traumi infantili.
Nello specifico, gli effetti dell’oppressione sul modo in cui usavo e sentivo il mio corpo sembravano molto simili agli effetti somatici del trauma.
Uno studio di ricerca che ho condotto sulla terapia del movimento con sopravvissuti a traumi (Johnson, 1996) ha rafforzato per me l’importanza di riconoscere i modi in cui il corpo affronta l’esperienza traumatica e mi ha aiutato ad iniziare ad articolare le dimensioni somatiche del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). Successive ricerche sui traumi (Levine, 1997; Nujenhuis, 2000; Ogden, Minton e Pain, 2006; Rothschild, 2000; van der Kolk, 1994, 1996) hanno confermato il ruolo del corpo nella mediazione del trauma, descrivendone l’impatto somatico. Questi effetti possono includere il senso di disconnessione dal corpo (sperimentare il corpo come in qualche modo non correlato al sé, o un’incapacità di sentire tutto o parte del corpo) a cui la letteratura spesso si riferisce come dissociazione somatica o somataforme (Nujenhuis, 2000).
L’impatto somatico del trauma può anche includere una costrizione del movimento del corpo (e un relativo disagio nell’essere fisicamente espressivi), rivivere somaticamente eventi traumatici (ricordi impliciti basati sul corpo in cui è presente solo la sensazione fisica), una risposta di sorpresa intensificata e una serie di disturbi somatici (Scaer, 2000).
Quando ho iniziato a creare questi collegamenti per me stess*, sono diventat* più in sintonia con le manifestazioni somatiche dell’oppressione in altr*, e ho iniziato a prestare maggiore attenzione ai collegamenti tra ciò che student**** e clienti mi hanno spiegato dei loro corpi e i contesti sociali in cui vivevano. Sono diventat* sempre più curios* dei modi in cui il segno, l’impronta somatica dell’ingiustizia sociale potrebbe essere vissuta e compresa attraverso i corpi e le voci degli/lle oppress*. Quello che segue è il risultato della mia ricerca sulle dimensioni somatiche dell’oppressione, vista attraverso la lente della conoscenza accumulata in vent’anni come psicoterapeuta orientat* al corpo ed educat**** somatic*. Per aiutare a collocare questa ricerca nel contesto del mio lavoro professionale, è necessaria un’altra breve storia.
Diversi anni fa, stavo facilitando un gruppo di terapia del movimento per donne in recupero dalla dipendenza. Una delle partecipanti ha portato un’intrigante combinazione di entusiasmo e reticenza al lavoro del gruppo – lei ha lottato con le dinamiche di gruppo e nel trovare la propria voce nelle discussioni di gruppo, ma è stato un gioco provare qualsiasi movimento o esperimento che ho suggerito. Il suo linguaggio del corpo era esitante e il suo uso dello spazio limitato, ma spesso c’era un sorriso nel suo viso e una scintilla negli occhi. Durante una sessione, abbiamo improvvisato alla musica usando grandi sciarpe di chiffon, immaginando che i nostri corpi esprimessero le qualità dell’aria. Mentre il suono delle corde dell’arpa fluttuava nella stanza, ho notato che Julia si muoveva con più libertà e facilità.
Quando il gruppo si è seduto in seguito per discutere le nostre esperienze, il sorriso era sul suo viso ed era impossibile non accorgersene. Raggiante di orgoglio, ha confidato di aver messo le braccia sopra la testa. Penso che fossimo tutte un po’ sconcertate da quell’affermazione all’inizio, fino a quando non ha spiegato che la sua infanzia vissuta con un padre alcolizzato, fisicamente ed emotivamente abusivo aveva così soffocato la sua capacità di sentirsi libera nel proprio corpo, che era diventata incapace di alzare le braccia sopra la testa senza sentirsi completamente esposta e vulnerabile. Le era stato insegnato di non occupare spazio, non ottenere, sforzarsi o rallegrarsi. Aveva anche imparato a non esporre il nucleo vulnerabile del suo corpo a possibili attacchi da parte di altri. Sebbene avesse ormai superato i trent’anni, non riusciva a ricordare di aver mai provato prima sentendosi a suo agio ad alzare le braccia sopra la testa in presenza di altri. Mi ha colpito ancora una volta quanto sia critica la dimensione relazionale dell’incarnazione, e quanto il modo in cui siamo con gli altri (o non siamo in grado di esserlo) sia così tanto una questione del corpo.
Dal mio punto di vista, c’erano forze incredibili che impedivano a Julia di essere nel suo corpo, nel suo modo di essere. Anche se quella mattina Julia aveva definito l’abuso di suo padre come una di quelle forze, avevo sentito il suo nome in molti altri fattori nel corso del nostro lavoro insieme: essere una ragazzina di strada, una lesbica, una tossicodipendente, una sopravvissuta psichiatrica, una donna. Ho deciso quindi di concentrare il mio lavoro professionale sulla comprensione di come funzionano le molteplici forze sociali sul corpo per portare in essere l’oppressione. La ricerca descritta in questo articolo si basa su tale determinazione e nella speranza di offrire nuove intuizioni, conoscenze e comprensioni rilevanti sia per gli studiosi che per i professionisti.
Quadro concettuale
I fondamenti teorici di questa ricerca si trovano nella letteratura accademica di numerosi campi e discipline, comprese le teorie dell’abitare il corpo e della comunicazione non verbale, psicologia somatica e femminista e traumatologia critica. I principali risultati della letteratura esistente sono descritti di seguito in una sequenza intesa a guidare il lettore attraverso il quadro concettuale interdisciplinare da cui lo studio razionale e le domande di ricerca emergono.
1. In breve, le teorie dell’essere nel corpo e la ricerca sulla comunicazione non verbale ci dicono che:
a. diventiamo chi siamo attraverso i nostri corpi (non solo le nostre menti) (Hanna, 1970; Merleau-Ponty, 1962),
b. la nostra esperienza incarnata è necessariamente anche un’esperienza sociale (Merleau-Ponty, 1962; Price e Shildrick, 1999; Weiss, 1999)
c. la componente non verbale dell’interazione sociale (piuttosto che la struttura istituzionale) è il luogo per i mezzi più comuni di controllo sociale (Henley, 1977; Henley & Freeman, 1995).
2. La teoria e la ricerca traumatologica ci dice che:
a. il trauma è significativamente mediato attraverso il corpo e si manifesta nell’esperienza incarnata (Scaer, 2005; van der Kolk, 1994), e
b. l’oppressione può essere collocata in un continuum di trauma e intesa come cronicamente traumatica (Burstow, 2003).
3. Infine, la psicologia somatica propone che è possibile trasformare l’esperienza individuale attraverso un processo di intervento psicoterapeutico somatico e di psicoeducazione che sostiene la coltivazione di un coscienza integrata e incorporata (Hartley, 2004).
Dato che la teoria dell’embodiement e la ricerca suggeriscono che il corpo è un luogo significativo per l’esperienza attraverso l’interazione sociale, e che i teorici del trauma sostengono che l’oppressione è traumatica, è ragionevole presumere che l’oppressione può manifestarsi nell’esperienza incarnata in modi paralleli agli effetti somatici del trauma. Stabilire questo collegamento attraverso la ricerca empirica fornisce la direzione per gli psicologi somatici che si impegnano nell’insegnamento, nella ricerca o nella psicoterapia con individui che hanno sperimentato l’oppressione.
Sebbene questo studio rappresenti un’incursione preliminare in un’area ricca e complessa, offre gli spunti pionieristici legati a nuove conoscenze. Nello specifico, inizia a scoprire come l’oppressione influenzi il modo in cui alcuni individui sperimentano e si relazionano ai propri corpi e ai corpi degli altri. Suggerisce anche che ciò che “sappiamo nei nostri corpi” è fondamentale per la nostra comprensione della giustizia sociale e per gli approcci psicoterapeutici e psicoeducativi a lavoro sulla diversità.
Emergendo dalle basi concettuali e dalle motivazioni di ricerca sopra descritte, il mio studio ha posto le domande seguenti:
1) Come viene vissuta l’oppressione sociale nel e attraverso il corpo?
2) Come portiamo il nostro corpo all’attraversamento delle differenze di potere nelle relazioni con gli altri?
3) La psicoterapia/psicoeducazione somatica può fornire un mezzo per diventare più consapevoli e competenti?
In quali modi in cui incarniamo il potere?
Queste domande saranno rivisitate in tutto il testo come vari concetti presentati nella revisione della letteratura, ci si riferisce ad essi nel chiarire i dati della ricerca.
Ai fini di questa ricerca, l’oppressione è definita come un sistema di molteplici forze sociali che privilegia ingiustamente i membri di alcuni gruppi rispetto ad altri e di conseguenza limita l’accesso alle risorse e alle opportunità per i membri di gruppi socialmente subordinati.
Revisione della letteratura
Gli studiosi che lavorano nell’area della teoria critica sociale stanno dando un contributo significativo alla comprensione del ruolo del corpo nell’esperienza sociale (Cohen e Weiss, 2003; Price and Shildrick, 1999; Shilling, 1993; Turner, 1996) e offrono importanti spunti su come il corpo e la società interagiscono, si influenzano e / o si creano a vicenda. Nel particolare, il lavoro dei teorici sociali sottolinea il ruolo del corpo nella riproduzione della società – sia attraverso la modifica cosciente che l’uso inconscio. Nonostante il significato di questi contributi, poche di queste idee sono state applicate a pratiche sviluppate per arricchire l’esperienza vissuta incarnata degli individui. Allo stesso tempo, la maggior parte dell’enfasi nella psicologia somatica fino ad oggi si è concentrata sull’esperienza soggettiva interna del corpo, con scarso riferimento a come quell’esperienza si traduce negli ambiti sociale e politico (Knaster, 1993; Hartley, 2006). Collegando i risultati chiave dei teorici dell’incarnazione con la teoria somatica e la ricerca emergente sul trauma, credo che esista un potenziale significativo per la teoria e la pratica della psicologia somatica di diventare anche una fonte di trasformazione personale e sociale.
Prospettive evolutive sull’incarnazione
In contrasto con le concezioni primordiali ed orientali del corpo/mente (Godagama, 1997; Yuasa, 1987) che concettualizzato il corpo/mente in modo olistico, la tradizione intellettuale ellenica separa corpo e mente e svaluta il corpo e le sue percezioni come inaffidabili e illusorie (Murphy, 1969). In un’eredità filosofica che si estende da Platone e Socrate fino a Cartesio, i sensi fisici sono considerati strumenti imperfetti per percepire la verità oggettiva della realtà esterna. Solo la mente è considerata capace di discernere e comprendere accuratamente la vera essenza dell’esistenza, e si pensa in realtà che l’esperienza corporea inibisca e comprometta i nostri tentativi di… comprendere la natura della realtà. Questa prospettiva ha avuto un’influenza profonda sulla tradizione teologica giudaico-cristiana, così come sulle successive scuole di pensiero filosofiche.
La fenomenologia offre forse la sfida filosofica occidentale più significativa al dualismo cartesiano.
In particolare, il lavoro di Merleau-Ponty offre una forma di fenomenologia incarnata ed esistenziale che enfatizza il ruolo del corpo nell’esperienza umana, e tenta di resistere alla tradizionale separazione cartesiana di mente e corpo. Nel “Fenomenologia della percezione” (1962), Merleau-Ponty sostiene che la coscienza, il mondo e il corpo umano sono intrecciate in modo intricato e reciprocamente impegnate, e che la realtà fisica non è composta dagli oggetti immutabili delle scienze naturali, ma è un correlato del nostro corpo e delle sue funzioni sensoriali. Le sue elaborazioni dell’immagine corporea e l’intersoggettività incarnata forniscono concetti chiave per comprendere come il divenire pienamente incarnato dipenda dall’essere con altri corpi vissuti. La sua nozione di intercorporeità riconosce che l’individuo vive in un campo multi-personale, e che questo campo, al contrario, abita l’individuo. L’esperienza incarnata e il mondo relazionale sono così profondamente interrelati che l’intercorporeità fonda e sostiene la nostra capacità di relazionarci con il mondo.
Il significato concettuale dell’intercorporeità per questa ricerca è nell’implicazione attraverso la quale rimaniamo esposti all’altro attraverso l’esperienza incarnata e questa può portare in noi stessi le diverse prospettive dell’altro attraverso i nostri corpi. In breve, cosa ci accade a livello corporeo in relazione agli altri (comprese le dimensioni incarnate delle interazioni sociali oppressive) è sia significativo che profondamente importante per la nostra identità.
La teoria somatica articolata da Hanna (1970, 1986 – 1987) e altri (Greene, 1997, 1998; Johnson, 1983, 1985, 1997) offre ulteriori approfondimenti sulla questione di come portiamo i nostri corpi nelle nostre relazioni sociali con gli altri e le altre. La teoria somatica attinge a prospettive esistenziali, evolutive e fenomenologiche per suggerire che ciò che sperimentiamo come realtà dipende dalla qualità della percezione somatica che portiamo nel nostro coinvolgimento con il mondo, e che privilegiando l’esperienza soggettiva del corpo si corregge uno squilibrio storico che marginalizza questa dimensione dell’esperienza umana. Una prospettiva somatica comprende una delle implicazioni di questo squilibrio come un restringimento o costrizione della coscienza che si traduce in meno libertà, meno scelte e modelli meno funzionali dell’impegno incarnato con l’ambiente (Hanna, 1970). Nel tracciare gli sviluppi filosofici che sostengono l’esperienza somatica, Hanna sostiene che la necessità di un ritorno all’esperienza vissuta del corpo è correlata all’evoluzione della specie umana, in risposta all’industrializzazione, alla razionalizzazione e alla mercificazione del corpo. Da questa prospettiva, potrebbero esserlo pratiche psicoterapeutiche e psicoeducative somaticamente informate intese a facilitare la consapevolezza dell’esperienza corporea a supporto della sua modificazione verso una più funzionale e intenzionale relazione tra corpo, mente e ambiente.
Il corpo e la teoria della critica sociale
Nonostante il collegamento concettuale della fenomenologia (e della teoria somatica) tra il mondo individuale e quello sociale attraverso il corpo esperito, il corpo è raramente referenziato direttamente negli scritti sociologici (Levin, 1988; Ritzer,1996), e solo di recente è diventato un argomento di studio legittimo a sé stante (Shilling, 1993). Gradualmente, tuttavia, l’astrazione incorporea caratteristica del dualismo cartesiano comincia a essere contestata dalle femministe, queer e altri teoric** della critica sociale , che hanno stabilito connessioni tra mancanza di consapevolezza corporea e oppressione di genere, così come altre forme di emarginazione.
Ad esempio, nella loro prefazione a “Feminist Theory and the Body”, Price e Shildrick affermano che “l’associazione del corpo alla fisicità grossolana e irrazionale segna un’ulteriore serie di collegamenti – rispetto ai neri, agli animali e agli schiavi “(1999, p. 2). Anche le teoriche femministe stanno notando come l’incarnazione sia stata storicamente caratterizzata da norme binarie – maschio / femmina, sano / malato, eterosessuale / omosessuale, nero / bianco – e che queste norme sono entrambe minacciate e confermate dall’esistenza di corpi che esistono al di fuori di esse.
La teorica queer Judith Butler (1991, 1993) fornisce un concetto chiave per comprendere come i corpi sono implicati non solo nella produzione sociale della differenza, ma anche nelle nozioni di identità. Attingendo a Irigaray’s (1985) la nozione di molteplicità oltre il binario e la costruzione sociale del corpo di Foucault (1990, 1991).
La nozione di identità performativa di Butler – costruita attraverso un processo di atti e gesti corporei reiterativi – suggerisce come il nostro corpo sperimentato e sperimentante siamo noi. Attraverso la performatività, il “testo” del corpo si sposta da essere composto principalmente da sostantivi stabili e immutabili per diventare significativamente verbi. Una delle più importanti implicazioni della performatività rispetto a questa ricerca è che fornisce una base concettuale per come interventi somatici (sia psicoterapeutici che psicoeducativi) potrebbero trasformare l’impatto somatico dell’oppressione fornendo modi alternativi di vivere l’esperienza incarnata.
I teorici critici del concetto di razza stanno anche affrontando l’impatto somatico dell’oppressione esaminando come questa promuove un rapporto dissociativo tra sé e corpo. Ad esempio, Laura Doyle (in Cohen e Weiss, 2003) suggerisce che oppressioni traumatiche come la schiavitù e il razzismo lavorano per colonizzare il corpo del soggetto oppresso, in modo che l’accesso alla nostra esperienza corporea come sé debba essere filtrata attraverso la lente di coloro che colonizzano gli altri. Come molti psicoterapeuti somatici, Doyle suggerisce l’arte del linguaggio come un modo per “toccare” il corpo senza dolore, e in lei l’analisi dell’impatto somatico dell’oppressione si allinea con (e complica) quanti traumatologi attualmente comprendere le dimensioni dissociative del trauma.
Mappando le intersezioni tra la teoria della critica sociale e il corpo, studios* e attivist* stanno muovendo le questioni dell’incarnazione al centro delle analisi culturali e politiche. Ad esempio, il poeta e attivista Eli Clare (1999, 2001) articola i legami tra disabilità, classe, razza, queerness, ambientalismo e abusi sui minori inserendo l’esperienza vissuta del corpo al centro di questi ambiti della realtà. Nell’esaminare criticamente le esperienze personali con paralisi cerebrale, oppressione di classe e identificazione come individuo transgender, sostiene che il tentativo di evitare il corpo come fonte identificata di differenze problematiche semplicemente perpetua e radica quelle differenze, e che rivendicare il corpo come sé è un profondo atto di resistenza politica.
Trauma, oppressione e corpo
Nel corso degli anni, ricercatori e teorici in ambito psicologico hanno sviluppato differenti comprensioni di come gli esseri umani rispondono e sono colpiti dai traumi, che vanno dalle prime connessioni freudiane tra nevrosi e abusi sui minori, allo “shock da combattimento” durante la prima guerra mondiale, alla più recente ricerca sul cervello. Sempre più spesso sono allo studio i contesti sociali di traumi interpersonali o relazionali, al fine di identificare alcune delle radici profonde di questa persistente fonte di disagio e sofferenza umana.
Judith Lewis Herman (1992) è stata una delle prime a stabilire connessioni tra diverse forme di violenza, e tracciare paralleli tra la violenza privata sperimentata nella vita di donne e bambini e quella pubblica della guerra e del terrorismo. Ha affermato che ci sono relazioni importanti tra le nostre esperienze personali e il contesto politico in cui si verificano e di come l’eredità di varie forme di trauma tocca in ogni aspetto la nostra società. I teorici e ricercatori successivi nel campo della traumatologia suggeriscono anche che gran parte della violenza e l’abuso con conseguente disturbo da stress post-traumatico (PTSD) esiste su un continuum (e all’interno del contesto più ampio) dell’oppressione sociale (Scaer, 2005). Ad esempio, la violenza sui nativi americani, gli afroamericani e LGBTQII (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuali e indagatrici) è stata inquadrata da alcuni studiosi come risposta disadattiva correlata al razzismo e all’eterosessismo (Bent-Goodley, 2001; Leventhal e Lundy, 1999; Wahal e Olson, 2004).
Anche se può sembrare ovvio che la violenza esplicita e implicita che accompagna le varie forme di oppressione sociale può essere traumatica per coloro che la sperimentano regolarmente, esistono poche ricerche accademiche a supporto di tale collegamento. La teorica femminista Bonnie Burstow (2003) è una delle poche specialiste del trauma che rende esplicita la relazione tra trauma e oppressione. Cita teorici che lavorano nell’area del trauma transgenerazionale e del trauma collettivo per sostenere che gli individui di gruppi oppressi ed emarginati vengono violati in modi che hanno effetti psicologici duraturi. Scrive: “Il punto è che le persone oppresse sono abitualmente logorate da insidiosi traumi nel vivere giorno dopo giorno in una società sessista, razzista, classista, omofoba e abilista” (Burstow, 2003, p.1296).
Burstow descrive il trauma non come un disturbo, ma come una reazione a un tipo di ferita, e sostiene che esiste una fisicità nel trauma che deve essere riconosciuta anche quando non si verifica un’aggressione fisica palese. In particolare, osserva che il trauma dell’oppressione spesso si traduce in un certo grado di alienazione dal corpo, e ora c’è un certo sostegno nella letteratura di ricerca che suggerisce che l’oppressione sistemica e gli imperativi socialmente costruiti sul corpo si combinano in modi che supportano i soggetti emarginati a vivere i loro corpi come se fossero al di fuori di loro (McKinley e Hyde, 1996).
Mentre il quadro concettuale all’interno del quale si fonda questa ricerca è allineato alla prospettiva teorica che problematizza un approccio puramente medico al trauma (Burstow, 2003; Herman, 1992), è importante riconoscere che i traumatologi ora identificano il trauma come un elemento fisiologico oltre che psicologico e sociale (Levine, 1997; Ogden et al, 2006; Rothschild, 2000; Scaer, 2005; van der Kolk, 1994). Rothschild (2000) osserva che “Anche quando l’evento traumatico non provoca danni fisici diretti, gli eventi traumatici richiedono un tributo al corpo come alla mente” (p. 34). Nel campo della ricerca sul trauma, gli effetti somatici del trauma sono stati ormai ben documentati (Rothschild, 2000; van der Kolk, 1994; van der Kolk et al, 1996).
In particolare, la dissociazione somatica è fortemente associata al trauma riportato (Van der Hart et al, 2000; Waller et al, 2000), e oggi vi sono prove considerevoli in riguardo al fatto che i sintomi dissociativi somatici sia no prominenti nella risposta degli individui che subiscono un trauma e nelle sue immediate conseguenze. Sebbene la dissociazione somatica possa essere considerata come un fenomeno normale, potenzialmente presente in tutta la popolazione, è anche altamente correlata al trauma (Speigel, 1994). La ricerca indica anche una relazione tra disturbo da stress post-traumatico e altre difficoltà somatiche. Sebbene i disturbi fisici dei sopravvissuti a traumi (come mal di testa, stomaco o problemi digestivi, problemi del sistema immunitario, asma o problemi respiratori, vertigini, dolore toracico e dolore cronico) sono spesso trattati in modo sintomatico, piuttosto che come segnali di PTSD, Van Ommeren, Sharma, Sharma, Komproe, Cardeña e de Jong (2002) hanno scoperto che il numero di sintomi da stress post-traumatico (indipendenti da depressione e ansia) può predirre sia il numero di disturbi somatici che saranno segnalati, sia il numero dei sistemi di organi che coinvolgeranno tali disturbi.
Sono stati notati cambiamenti neurobiologici (alterazioni nell’attività delle onde cerebrali, nelle dimensioni delle strutture cerebrali e nel funzionamento di processi come la memoria e la risposta alla paura) e i cambiamenti psicofisiologici (ipereccitazione del sistema nervoso simpatico, aumento della risposta allo spavento, disturbi del sonno, aumento dei cambiamenti neuro-ormonali che si traducono anche un aumento dello stress e un aumento della depressione) (Jaffe & Segal, 2005).
La letteratura sul trauma qui recensita enfatizza le dimensioni somatiche del trauma al fine di stabilire l’ importanza del corpo nella mediazione del trauma ed evidenziare i modi in cui i teorici del trauma riconcettualizzano l’oppressione come traumatica. Questa ricerca estende tale conoscenza descrivendo come l’oppressione si manifesta in e attraverso l’esperienza incarnata, e fino a che punto si manifesta attraverso categorie stabilite di risposta al trauma.
Metodo
I/le partecipanti sono stati scelti per questo studio in base a quattro criteri: 1) hanno espresso interesse e disponibilità per esplorare la loro esperienza somatica di oppressione sia verbalmente che non verbalmente, 2) hanno affermato di avere abbastanza prospettiva sulla loro esperienza (sia psicologica e/o cronologica) in modo tale che un’esplorazione di questa non sarebbe potuta essere dannosa e 3) si aspettavano ragionevolmente che la partecipazione allo studio avrebbe consentito loro di aumentare la visione personale della loro esperienza. I/le partecipanti sono stat* reclutat* principalmente dal corpo studentesco dell’Università di Toronto a Toronto, Canada. Molti studenti di questa università culturalmente diversificata affrontano importanti aspetti sociali ed economici rispetto alle barriere all’istruzione superiore e sperimentano l’oppressione e l’emarginazione in modo continuo.
Ciascun* de*** partecipanti si è impegnat* in due interviste private registrate di persona con me, ciascuna della durata di circa 60-90 minuti. Le interviste si sono concentrate sulle loro esperienze personali di oppressione e su come queste esperienze hanno influenzato a) la loro relazione con il proprio corpo e con i corpi degli altri, e b) i loro modelli non verbali di comunicazione. Durante alcune parti delle interviste, alcun* de*** partecipanti si sono impegnat* anche in una o due “esperimenti” somatici tratti da tecniche di psicoterapia somatica ben consolidate. Questi esercizi esperienziali includevano un esercizio guidato di Focusing® (vedi Gendlin, 1987), così come un esercizio interattivo di “confine” in modo da esplorare problemi e modelli nell’uso dello spazio personale. Questa componente esperienziale aveva lo scopo di consentire a entrambi di avere un’opportunità per sviluppare connessioni somatiche con il materiale emerso durante l’intervista/discussione – per avere un’idea nei nostri corpi di ciò che veniva descritto a parole e per aiutarci entrambi a comprendere la natura delle esperienze di oppressione de*** partecipanti.
Cinque narrazioni sono state sviluppate dalle interviste, e sebbene la lunghezza delle narrazioni originali non consenta la loro inclusione in questo documento (ognuno è di circa 20 pagine), i punti salienti delle narrazioni sono integrati durante l’elaborazione dei risultati della ricerca. I/le partecipanti a cui si fa riferimento nei risultati includono Crissy ( donna aborigena con una storia di dipendenza e alimentazione disordinata), Natalie (una donna che ha vissuto in una relazione con un uomo indiano e che ha lottato con problemi di immagine fisica per la maggior parte della sua vita), Zaylie (una donna nera bisessuale che attualmente lavora come fisioterapista e ballerina esotica) e Pat (una lesbica di mezza età a cui la recente esperienza di maturazione di una ciste di Bartolini nelle aree genitali, ha evocato sentimenti relativi ai ricordi di un abuso vissuto in una relazione del passato).
Risultati
Un certo numero di fili comuni sono stati intrecciati nelle storie del corpo dei/ delle partecipanti che hanno permesso una discussione di significati più ampi nel contesto dei quesiti di ricerca e collegamenti consoni all’ambito della letteratura esistente inerenti al quadro concettuale della tesi. Mentre diversi temi sono emersi da informazioni contenute nelle narrazioni, questo articolo si concentrerà solo su due di essi:
1. La relazione tra le risposte incarnate all’oppressione e l’impatto somatico del trauma
2. Il corpo come fonte di conoscenza autorevole oltre che di potere personale e sociale, e come luogo di resistenza all’oppressione.
Nella mia discussione su questi temi, evidenzierò come essi forniscano approfondimenti sui quesiti di ricerca, come estendano ciò che è già noto sul ruolo del corpo nelle interazioni interpersonali oppressive e in cosa queste storie contribuiscono alla letteratura teorica e alla pratica professionale nella psicoterapia corporea.
Trauma incarnato
Una delle domande poste da questo studio era come l’oppressione fosse vissuta in e attraverso il corpo.
Le narrazioni offrono una serie di importanti spunti da parte dei partecipanti sui modi in cui le esperienze di oppressione hanno intaccato il felt sense del loro corpo. In particolare, i partecipanti hanno descritto esperienze che si sono concentrate su
a) memoria incarnata,
b) vigilanza somatica,
c) ritiro o alienazione dal corpo.
Memoria incarnata. Molti/e de*** partecipanti hanno offerto informazioni e comprensione su come il corpo può… “trattenere” o ricordare esperienze di oppressione. Ad esempio, quando ho chiesto a Crissy di riflettere sull’impatto corporeo dell’oppressione nella sua vita, ha offerto una vivida descrizione della sensazione del suo corpo che viene scosso in risposta a un esperienza opprimente. Attingendo alla conoscenza implicita a cui si accede attraverso la tecnica del Focusing®, ha parlato del sentirsi come se il suo corpo fosse stato violentemente scosso da una forza esterna, e provare una “scossa di paura” ovviamente attraverso il suo stesso corpo. Questa sensazione di essere scossa la lascia confusa, impotente e congelata, come se fosse “bloccata”tra lotta e fuga”. Inoltre, Crissy osserva che queste sensazioni di disturbo e disorientamento sono molto familiari in lei, e spesso accompagnano esperienze di sentirsi oppressa. Collegando questa descrizione alla letteratura traumatologica (Rothschild, 2000; Van der Kolk, 1994), è possibile comprendere l’incarnazione della memoria dell’oppressione di Crissy come simile all’impatto somatico del trauma ed esemplificativo di un aspetto intrusivo del trauma, che è caratterizzato da “reattività fisiologica all’esposizione a segnali interni o esterni che simboleggiano o assomigliano ad un aspetto dell’evento traumatico” (APA, 1994).
La spiegazione di Pat della sua esperienza con una cisti di Bartolini può anche suggerire un legame tra l’impatto somatico del trauma e dell’oppressione. Dal modo in cui ha descritto l’impatto fisiologico e psicologico di avere una cisti vaginale, Pat ha affermato di scoprire gli strati simbolici più profondi di ciò che la cisti rappresentava per lei, l’esperienza dell’infanzia e lo squilibrio di potere nel suo rapporto con il fratello maggiore. Ha descritto come la vagina conservava alcuni ricordi della relazione con suo fratello che dovevano essere trattenuti fino a quando non avesse sviluppato la forza psicologica e la capacità di guardare a questi particolari problemi di oppressione. Collegandosi con l’esperienza del suo corpo, Pat è stata in grado di accedere a strati di dolore e perdita che sono “depositati nel corpo”. Dal momento che la sua formazione come psicoterapeuta le ha fornito un quadro concettuale per stabilire i collegamenti tra trauma e il corpo, è in relazione alla mia domanda sugli effetti dell’oppressione sul suo corpo che lei ha offerto questo esempio.
Inoltre, lo indica chiaramente come una forma di memoria incarnata e come una manifestazione somatica simbolica di una precedente ferita traumatica.
Un altro esempio dell’impatto dell’oppressione sull’esperienza vissuta del corpo è fornito da Zaylie che ha raccontato la sua esperienza nell’esercizio di Focusing® durante la nostra seconda intervista, in risposta alla mia domanda su come l’oppressione ha colpito il suo corpo:
Quando me lo hai chiesto per la prima volta… quello che mi è venuto in mente è che il mio corpo è affamato, secco e riarso. Poi più ci pensavo, più iniziavo a sentirmi a disagio… come se ci fosse questo tipo di catrame a rivestire tutte le mie viscere che mi impediva di assorbire qualsiasi cosa. Come se tutto ciò che sarebbe entrato in me sarebbe solo passato.
Zaylie descrive questa sostanza catramosa come qualcosa che ha ingerito dal mondo esterno e che ora esiste all’interno del suo corpo come residuo delle sue esperienze di oppressione. Riconosce inoltre che questo residuo impedisce in lei l’assorbimento di nutrienti emotivi, psicologici e relazionali – dall’essere influenzata da esperienze positive con altre persone. Non è solo che il suo corpo vive gli effetti residui dell’oppressione, ma che l’oppressione interferisce con la sua capacità di confrontarsi e di essere nutrita dal mondo. Sebbene Zaylie non descriva questa esperienza come un ricordo traumatico intrusivo, è chiaro dalla sua descrizione rispetto al fatto che ripetute esperienze di oppressione hanno lasciato un’impronta sull’esperienza vissuta dal suo corpo che potrebbe essere intesa come una forma di danno. Questo fa eco a ciò che afferma Burstow (2003) asserendo che il trauma è una reazione a un tipo di ferita e che l’impatto fisico del trauma deve essere riconosciuto anche quando non si verifica un’aggressione fisica palese. Recenti ricerche sugli effetti somatici del trauma (Ogden,2006; Van der Kolk e Courtois, 2005) sottolineano il ruolo del corpo nella mediazione delle esperienze traumatiche, e le descrizioni dei partecipanti della loro esperienza incarnata di oppressione, forniscono importanti spunti su come l’oppressione come forma di trauma può essere trattenuta e ricordata nel corpo.
Vigilanza somatica. Tutti\e i\le partecipanti alla ricerca hanno parlato di quanto si sentano altamente sensibilizzati\e e sintonizzati alle reazioni e alle risposte de*** altr*, e sebbene le loro narrazioni descrivano anche i modi in cui ora prendono vantaggio di questa accresciuta consapevolezza in modo positivo, era chiaro nelle mie conversazioni con loro che la loro sensibilità relazionale nasceva inizialmente per necessità derivante da esperienze difficili e problematiche con altr*.
Nel suo racconto, Zaylie si riferiva a un tipo di vigilanza somatica nei confronti degli uomini, e parlava di bisogno di essere in grado di leggere la loro comunicazione non verbale, soprattutto quando si trovavano in stretta vicinanza fisica. Dato che lei nomina anche il sessismo e l’aggressione sessuale da parte degli uomini come parte della sua esperienza di oppressione, forse non è sorprendente che la sua vigilanza sia orientata verso di loro come potenziale fonte di pericolo.
Natalie ha anche fatto riferimento alla sua vigilanza verso gli uomini nel suo ambiente e nota il suo disagio come qualcosa che sente nel corpo. Pat ha osservato di essere particolarmente attenta alla dimensione corporea dell’interazione interpersonale, e riconosce che diventa sempre più imbarazzata quando sente che gli altri non rispondono ai suoi segnali non verbali con un certo grado di empatia cinestetica. Da bambina, la vigilanza somatica di Crissy era concentrata su sua madre e sulla sua narrativa, descrive i modi in cui ha imparato ad essere molto attenta ai più piccoli segnali non verbali di sua madre, farlo aiutava Crissy ad anticipare ed evitare un’esplosione rabbiosa di abusi verbali. Questa maggiore attenzione ai segnali del corpo di altri è continuata nell’età adulta e Crissy ha notato che rimane molto sensibile agli indicatori non verbali di altri che potrebbero suggerire conflitti interpersonali o difficoltà.
Poiché le risposte somatiche umane al pericolo (anche quando quel pericolo non è necessariamente fisico) sono profondamente radicate nel nostro sistema nervoso autonomo (van der Kolk, 1994), ha senso che i partecipanti riportino di sentire una maggiore prontezza del corpo attorno a potenziali fonti di minaccia – se quella fonte è un gruppo di uomini in piedi all’angolo di una strada, o un tavolo da conferenza pieno di medici bianchi della classe media (come è vero per Zaylie quando frequenta conferenze presso l’ospedale in cui lavora). Le esperienze de*** partecipanti come raccontate nelle loro narrazioni stanno a illustrare i modi in cui questa vigilanza somatica si è affermata per loro come un modello abituale di risposta.
Sebbene i catalizzatori di questa risposta possano essere differenti esperienze di oppressione, le descrizioni della risposta dei partecipanti di per sé sono simili a quelle riscontrate nello stress post-traumatico (APA, 1994).
Ritiro somatico e alienazione. Nel descrivere l’impatto somatico dell’oppressione, tutti i partecipanti hanno parlato della profonda disconnessione dall’esperienza vissuta dei loro corpi. In molti casi, questa disconnessione era qualcosa che i\le partecipanti hanno realizzato solo di recente attraverso il processo di affrontare l’impatto dell’oppressione.
Allo stesso tempo, i\le partecipanti hanno anche descritto questo ritiro dall’esperienza sentita del corpo come strategico: qualcosa che ha permesso loro di sopravvivere ai sentimenti dolorosi generati dalle loro esperienze di oppressione.
Pat ha parlato dell’esperienza della disconnessione somatica arrivando ad una certa profondità e ha notato che nel recupero del corpo la consapevolezza si è rivelata cruciale per il suo senso di guarigione e potenziamento. Ha descritto l’incapacità di abitare completamente il suo corpo come uno dei componenti centrali della ricaduta traumatica e di un “certo stato di collasso” corporeo che rifletteva un simile stato di collasso nella psiche. Allo stesso tempo, L’uso di varie sostanze mediate dal corpo – fumo, alcool, cibo – puo’ anche essere osservato come strategia di compensazione che induce l’effetto desiderato di distacco corporeo e intorpidimento. L’elaborazione di Crissy dei suoi anni di abuso di droga e alcool fa eco a una strategia simile. È interessante notare che Zaylie ha descritto come ha appreso un’efficace strategia dissociativa attraverso il processo di educazione alla danza, nel suo descrivere di come i ballerini vengono addestrati a vedere il proprio corpo come un oggetto, come il balletto viene esplicitamente insegnato nella danza “bianca”.
Le descrizioni del ritiro somatico e dell’alienazione fornite dai partecipanti sembrano essere correlate in alcuni modi alle dinamiche di “evitamento” del PTSD descritte nella letteratura sul trauma. Questi criteri includono sentimenti di distacco da sé e dagli altri, che a livello corporeo potrebbero riferirsi a ciò che Nijenhuis (2000) e altri descrivono come“dissociazione somatica”. Le esperienze descritte nelle narrazioni riportano alla mente anche il lavoro di McKinley e Hyde (1996) sulla coscienza corporea oggettivata, che suggeriscono che l’oppressione sistemica e gli imperativi socialmente costruiti sul corpo si combinano in modi che supportano i soggetti emarginati a sperimentare i loro corpi dall’esterno, piuttosto che dall’interno.
Nel complesso, sembra chiaro dalle storie raccontate dai partecipanti che esiste qualche relazione tra gli effetti del trauma somatico e le risposte incarnate all’oppressione. Mentre alcune delle dimensioni somatiche dell’oppressione citate nelle narrazioni si prestavano abbastanza facilmente a un confronto con le note risposte del corpo al trauma, le descrizioni non corrispondono esattamente al disturbo da stress post-traumatico (PTSD) o ai criteri del disturbo da stress post-traumatico cronico (C-PTSD). Sebbene la psicobiologia del trauma sia un campo emergente e in rapido sviluppo, e le dimensioni somatiche dell’esperienza traumatica sempre più riconosciute (van der Kolk, 1994; Odgen et al, 2006) le correlazioni empiriche tra trauma e oppressione (e l’oppressione come forma di trauma cronico) non sono ancora state del tutto stabilite. Tuttavia, esistono collegamenti teorici (Burstow, 2003) e le descrizioni delle esperienze di oppressione da parte dei\lle partecipanti a questo studio suggeriscono che vale la pena continuare ulteriori ricerche per articolare gli effetti somatici specifici dell’oppressione come forma di trauma.
Conoscenza e potere del corpo
Nonostante le ferite fisiche inflitte nel corso di una vita di rapporti di potere ingiusti e iniqui, ciascuno dei\delle partecipanti a questo studio ha anche sperimentato il suo corpo come un’importante fonte di conoscenza e potere e come sito per resistere all’oppressione. Sebbene riacquistare in sicurezza l’accesso a questa fonte di energia spesso richiedesse la creatività paziente descritta da Laura Doyle (in Cohen e Weiss, 2003), ognuna\o di loro ha riconosciuto l’importanza di agire in tale maniera. Natalie ha descritto un processo di crescente riconnessione al suo corpo man mano che invecchia, e fa eco all’osservazione di Pat che non sapeva quanto fosse somaticamente dissociata fino a quando non ha riacquistato più sensibilità, sensazione e consapevolezza nel suo corpo.
Crissy ha parlato di come lo yoga l’abbia aiutata ad affrontare la disconnessione che una volta sentiva dal suo corpo, e Zaylie ha scoperto che le forme di danza “nere” le forniscono un percorso simile per tornare al suo corpo. Sia per Zaylie che per Crissy, forme di danza che le riconnettono con il loro patrimonio culturale, hanno fornito un mezzo per l’espressione incarnata che le aiuta a rivendicare per se stesse il potere dei loro corpi. Zaylie ha notato che la danza le ha fornito un ampio vocabolario del movimento e che usa consapevolmente la sua capacità appresa per articolare messaggi non verbali concisi come modo per resistere o deviare l’oppressione.
Per Natalie, lo yoga fornisce un mezzo per connettersi con il corpo in modo gentile e compassionevole che la aiuta ad ammorbidire alcune delle voci critiche interiori che sono diventate radicate nella sua immagine corporea nel corso degli anni. Per Crissy le lezioni di movimento hanno uno scopo molto simile e le consentono non solo di interagire con il corpo in modi positivi, ma anche di facilitare questo per gli altri e le altre. Pat e Natalie hanno entrambe riconosciuto che trovare modi per sperimentare loro stesse come atleticamente capaci ha contribuito a promuovere un senso crescente dei loro corpi come potenti, anche se forse vale la pena notare che nessuna delle due ha ancora intrapreso questo recupero attraverso gli sport di squadra.
In quasi tutti i casi, questa rivendicazione del corpo come fonte di potere personale e sociale sembra essersi evoluta attraverso un processo di selezione intuitiva e circostanze fortunate. In tutti i casi, ha anche proceduto attraverso un processo di educazione, sia che l’apprendimento sia
avvenuto in modo indipendente e informale, sia attraverso quadri più stabiliti. Tuttavia, ad eccezione di Zaylie (la cui capacità di conoscenza incarnata è stata costantemente coltivata in molti anni di allenamento al movimento), la via del ritorno al corpo non è stata ovvia o un sentiero accessibile. Certamente, le partecipanti riconoscono che gli spazi sicuri per tali esplorazioni sono rari e che la salute pubblica e i sistemi educativi non sono stati luoghi per reclamare i propri corpi come fonti primarie di esperienza, conoscenza e energia.
Discussione
La conoscenza generata dai partecipanti alla ricerca rispetto all’impatto somatico dell’oppressione contribuisce a rilevanze esistenti in diversi campi. I temi che emergono dalle narrazioni incarnate in questo studio sottolineano il significato del corpo come fonte e luogo dell’ingiustizia sociale (Henley, 1977; Henley e LaFrance, 1984; Henley & Freeman, 1995; Prezzo e Shildrick, 1999). Le esperienze incarnate di oppressione descritte dai partecipanti riflettono anche le interpretazioni più complesse e sfumate dell’oppressione sociale come pluridimensionale (Johnson, 2001) e forniscono una nuova visione del modo in cui le esperienze di molteplici forme di oppressione sono mediate dentro e attraverso il corpo, collegandosi alla letteratura sul trauma che riconosce la natura traumatica dell’oppressione.
Nello specifico, i risultati illustrano come le relazioni interpersonali oppressive suscitino reazioni traumatiche e puntano a chiarire come la natura emergente del corpo sperimentato (Grosz, 1994) fornisce un mezzo per trasformare l’oppressione.
Le narrazioni in questo studio offrono anche vivide illustrazioni del modo in cui il corpo è una potenziale fonte di conoscenza personale, azione, potere ed espressione creativa.
Questa sezione discute i contributi della ricerca in relazione alle conoscenze accademiche e alle pratiche professionali. In primo luogo, sono discussi. i contributi nei campi correlati della teoria dell’incarnazione e della psicologia somatica.
Vengono esaminati anche i contributi alla traumatologia. Successivamente, le implicazioni per la pratica sono discusse su come attingere alle esperienze dei partecipanti alla ricerca descritte nelle narrazioni, per suggerire come queste nuove comprensioni dell’esperienza incarnata potrebbero informare le pratiche attuali nella psicologia somatica e della psicoterapia orientata al corpo.
Contributi alla teoria dell’incarnazione
Le teorie dell’incarnazione sono attualmente inserite in un certo numero di campi, tra cui l’antropologia (Csordas, 1999), la sociologia (Shilling, 1993, Turner, 1996) e gli studi sulle donne (Price e Shildrick, 1999). Teorie sociali relative al corpo offrono importanti spunti su come il corpo e la società si influenzano e/o si costruiscono a vicenda. Elaborano il ruolo del corpo come luogo dell’identità personale, come il nostro status sociale si riflette nella nostra relazione con il nostro corpo e il linguaggio del corpo che parliamo, e il ruolo del corpo nella riproduzione della società attraverso la modificazione cosciente e il suo uso inconsapevole. Le teoriche della critica sociale (Butler, 1999; Clare, 2001; Grosz, 1994) hanno teorizzato il corpo come elemento cruciale nell’articolazione della differenza sociale, base importante per l’oppressione sociale, nonché luogo di resistenza. Tuttavia, poche teorie dell’incarnazione sono state collegate ad applicazioni pratiche che potrebbero trasformare l’esperienza quotidiana vissuta da individui all’interno di particolari contesti sociali (Weiss, 1999).
Le narrazioni dell’esperienza vissuta raccontate da*** partecipanti a questa ricerca forniscono spunti unici su come si incarna l’oppressione, come viene compresa ed espressa l’esperienza soggettiva dell’oppressione del corpo e come il corpo può fornire un mezzo per trasformare l’esperienza personale e l’interazione sociale. Queste storie mettono carne e sangue sulle ossa della teoria dell’incarnazione mentre contemporaneamente sfidano la tendenza di qualche teoria dell’incarnazione di concentrarsi sul corpo come concetto sociale astratto o superficie per l’iscrizione culturale (Field, 1996).
Ad esempio, tutt* i/le partecipanti hanno descritto l’impatto dell’oppressione sui loro corpi come se si verificasse su un livello interiore, viscerale così come sulla superficie – Zaylie ha parlato della sensazione di catrame che riveste le sue interiora, e Natalie ha parlato del suo corpo come di una sensazione di “bozzolo”. Crissy ha rivelato che era solita spolverarsi la pelle con la cipria per farlo sembrare più bianco, e Pat ha notato come usa le braccia per indicare lo “spazio relazionale” tra due persone come modo per navigarne i confini. In breve, queste narrazioni suggeriscono che l’esperienza incarnata dell’oppressione sociale si verifica su tutti questi livelli (interiore, superficiale e relazionale) contemporaneamente. L’implicazione per l’incarnazione e per l’ambito degli studi somatici è che qualsiasi astrazione del corpo fornisce una comprensione incompleta di un’esperienza vissuta che è complessa, multidimensionale ed unica.
La ricerca suggerisce inoltre che i teorici dell’incarnazione potrebbero concentrarsi in modo produttivo sulla capacità del corpo di trasformare (piuttosto che semplicemente mettere in scena e riprodurre) l’esperienza opprimente. I partecipanti hanno parlato chiaramente e in modo convincente di come hanno iniziato a reclamare i loro corpi come fonte di conoscenza del mondo, e come diventare più attent* ai messaggi che trasmettevano agli altri attraverso il linguaggio del corpo ha fornito un’apertura per spostare le loro relazioni con gli/le altri/e verso un equilibrio di potere più equo. Ad esempio, per Pat venire a patti con le ferite passate e attuali del suo corpo sembra una vittoria, e il suo viaggio di guarigione e recupero del corpo le ha fornito un modello per essere in relazione con gli altri e rivolgersi agli abusi di potere in un modo che Pat ritiene abbia il potenziale per fornire una guarigione più ampia per l’oppressione sociale.
Contributi alla traumatologia
Recenti ricerche traumatologiche hanno stabilito che il trauma è significativamente mediato attraverso il corpo e si manifesta nell’esperienza incarnata. La psicobiologia del trauma è un campo emergente e in rapido sviluppo, e le dimensioni somatiche dell’esperienza traumatica sono sempre più riconosciute (Ogden et al, 2006; Rothschild, 2000; van der Kolk, 1994). Gli effetti del trauma sono generalmente raggruppati in categorie che aiutano a riconoscere e comprendere come il trauma influisca sull’esperienza incarnata (APA, 1994). Allo stesso tempo, correlazioni empiriche tra trauma e oppressione (e l’oppressione come forma di trauma cronico) non sono ancora state stabilite.
Tuttavia, esistono solidi collegamenti teorici (Burstow, 2003). Ciò che non è stato studiato fino a qui è come l’oppressione si manifesta in e attraverso l’esperienza incarnata, e fino a che punto si manifesta attraverso quelle che sono le categorie generiche di risposta al trauma.
Le intuizioni e le comprensioni dei partecipanti alla ricerca hanno offerto uno sguardo unico sui modi complessi in cui l’oppressione è mediata nel corpo come esperienza traumatica. Nel complesso, sembra chiaro dalle informazioni che le partecipanti hanno fornito che alcune relazioni parallele tra gli effetti somatici del trauma e le risposte incarnate all’oppressione esistono. I risultati di questo studio forniscono la prima base nota nella ricerca per questa connessione, e suggeriscono che valga la pena di approfondire la ricerca per articolare gli effetti somatici specifici dell’oppressione come forma di trauma.
Contributi alla psicologia somatica
La psicologia somatica si basa sul felt sense interno del corpo come base per lavorare attraverso la comprensione dell’esperienza umana vissuta (Hartley, 2004). Lavorando con il corpo, gli operatori somatici non si rivolgono solo al corpo meccanico, fisico, ma anche il corpo coinvolto – quello che sente e ci connette con le emozioni, sensazioni, ricordi, idee e convinzioni. Sebbene la psicologia somatica sia essenzialmente olistica nell’orientamento, e riconosca l’integralità dell’ambiente con il soma, gli psicologi somatici, per la maggior parte, non si occupano di questioni sociali, con poche eccezioni (Hanna, 1970; Johnson, 1995; Mindell, 1996). Mentre gli psicoterapeuti somatici sono ben preparati per affrontare questi problemi, gli attuali approcci somatici ignorano quasi universalmente la dimensione culturale, sociale e politica dell’esperienza umana incarnata. Nonostante l’impegno per una prospettiva olistica che includa soma e ambiente, (Greene, 1997), la maggior parte dell’enfasi nella psicologia somatica si è concentrata sull’esperienza soggettiva attraverso il corpo piuttosto che sulla relazione incarnata, o su come sia interattiva l’esperienza incarnata con gli/le altr* e si traduca nelle dimensioni sociali e politiche. Nella mia esperienza di formazione e pratica sul campo di oltre vent’anni ho osservato che gli psicoterapeuti somatici raramente forniscono ai clienti o agli studenti opportunità dirette per esplorare le differenze di potere tra gli individui come membri di gruppi, comunità e società. Le questioni di giustizia sociale, diversità ed equità non vengono quasi mai affrontate direttamente (Knaster, 1996).
Le narrazioni in questo studio di ricerca offrono nuove importanti comprensioni ai teorici della psicologia somatica e ai professionisti circa l’impatto significativo dell’oppressione sull’esperienza incarnata. I partecipanti erano inequivocabili sull’importanza delle interazioni sociali nella formazione di un’identità incarnata e sul danno che le inique dinamiche di potere avevano sulla loro esperienza interiore percepita del corpo. Pat descrive come è cresciuta sentendo che il suo corpo non era mai abbastanza buono, Natalie pianse la perdita di opportunità per il suo corpo di sviluppare tutte le sue capacità, e le lotte di Crissy con l’odio per il corpo e la vergogna hanno minacciato la sua stessa sopravvivenza. Dato che questi effetti debilitanti sono il risultato di interazioni all’interno di realtà sociali, culturali e politiche, questa ricerca suggerisce che un cambiamento nel sistema psicologico somatico, che enfatizzi le dimensioni socioculturali dell’esperienza somatica, affronterebbe l’impatto somatico dell’oppressione più direttamente.
La ricerca fornisce anche preziosi suggerimenti agli psicologi somatici su alcuni aspetti che questo spostamento verso le dimensioni socioculturali dell’esperienza somatica potrebbe includere. I partecipanti hanno descritto una serie di effetti somatici dell’oppressione, dall’immagine corporea al vocabolario del movimento. Le loro narrazioni affrontavano anche questioni di confini incarnati, linguaggio del corpo e traumi. Creando collegamenti tra questi problemi e l’esperienza vissuta del corpo, gli psicologi somatici potrebbero sfruttare la loro esperienza per trasformare l’esperienza soggettiva del corpo e affrontare più direttamente il suo contesto socioculturale.
Implicazioni per la pratica
Come psicologi somatici, terapisti ed educatori che lavorano in ambienti multiculturali complessi, noi, siamo arrivati sempre più a riconoscere l’importanza della diversità e delle questioni di equità insite nel processo di cambiamento personale. C’è anche un crescente apprezzamento della nozione in riguardo al fatto che ognuno di noi porta una prospettiva unica su questi problemi nelle nostre cliniche, uffici e aule, in base alle dimensioni intersecanti della nostra storia personale e dello sviluppo professionale (Kellner, 2006). I nostri clienti, ovviamente, portano un insieme altrettanto complesso, di comprensioni, ipotesi e pratiche.
Questa sezione si concentrerà su come la ricerca informa la nostra comprensione pratica dei modi in cui il corpo è implicato nella navigazione di queste complessità, e come la conoscenza incarnata dei partecipanti alla ricerca potrebbe informare i modi in cui affrontiamo (o non affrontiamo) la diversità e l’equità nella nostra pratica.
Mentre i contributi alla conoscenza accademica, discussi nella sezione precedente di questa ricerca, rientrano in una gamma di discipline (studi dell’incarnazione, psicologia somatica e traumatologia), i contributi a la pratica si concentreranno sulla psicoterapia somatica.
Dalla ricerca emergono una serie di domande rispetto alle implicazioni per la pratica. In particolare, sono stata colpita dall’osservazione di Natalie durante la sua intervista, in cui spiega che sebbene apprezzi una maggiore consapevolezza di come il suo corpo sia coinvolto nelle dinamiche di potere sociale, si sente ancora incerta su cosa fare con questa consapevolezza. Se la riflessione critica non è collegata all’azione strategica, come incarniamo il cambiamento? O come ha sottolineato Natalie, come fa a contribuire a rendere il mondo diverso per i suoi figli? A tal fine, molti degli argomenti nella letteratura specializzata forniscono basi concettuali per applicare i risultati della ricerca alla pratica dell’insegnamento e dell’apprendimento. E sebbene nessuna delle partecipanti a questo studio abbia descritto l’esatto processo attraverso il quale si è impegnata nell’esperienza incarnata, potrebbe essere utile parlarne brevemente, per aiutare a elaborare più precisamente come la psicoterapia somatica potrebbe incorporare prospettive sia critiche che incarnate.
La teoria somatica (Gendlin, 1978; Hanna, 1970; Johnson, 1983; Yuasa, 1987) suggerisce che coltivare la coscienza incarnata produce/suscita uno stato alterato di coscienza, e Hanna (1970) suggerisce che questo cambiamento nella coscienza può servire come luogo di resistenza contro l’oppressione. Più specificamente, alcuni operatori somatici sostengono che essere comodamente ancorati in una solida esperienza sentita del corpo in relazione ad altri corpi è fenomenologicamente talmente diverso dall’esperienza dell'”altro” o dell’essere “altro” da fornire una convincente contrappunto ai modelli gerarchici di potere sociale – un luogo da cui vivere il mondo in modo diverso anche quando le strutture sociali attraverso le quali tale esperienza si plasma non sono ancora cambiate (Johnson, 2003).
Pat ha descritto questo fenomeno nella sua narrazione attraverso l’osservazione di come sentirsi connessa al proprio corpo cambia radicalmente le sue relazioni con gli altri in modo positivo, ed è stato il suo percorso corporeo che ha reso reali per lei i problemi di giustizia sociale, teoria somatica (Greene, 1997) e teoria sociale (Foucault, 1991; Johnson, 2001) comprende questo processo come avente profonde implicazioni per le strutture sociali, basata su la premessa che le strutture sociali sono create (e riprodotte) attraverso una rete di relazioni interpersonali, Quando le relazioni cambiano – corpo per corpo – così, lentamente, si modificano le strutture.
L’estensione di questo processo alla pratica della terapia suggerisce che gli interventi che supportano l’esperienza di sentire le sensazioni corporee dei clienti incoraggia allo stesso tempo la coltivazione di relazioni più radicate ed eque con gli altri. Io sostengo, tuttavia, che l’incarnazione coltivata attraverso queste strategie di psicoterapia somatica non è re-incarnazione – che cioè non è un ritorno a uno stato idealizzato, naturale o “autentico” di connessione con i nostri sé corporei (cioè, siamo stati accompagnati a sentire i nostri corpi da bambini, ma le esigenze degli adulti della società moderna ci hanno costretto a disconnetterci).
Piuttosto, questa integrazione di esperienza somatica e consapevolezza cosciente dovrebbe essere vista come una coltivazione di capacità di forme di coscienza più profonde e ricche. Yuasa (1987) chiama questa “coscienza luminosa”; Anna (1970) descrive questo come l’evoluzione del soma. Suggeriscono che l’incarnazione consapevole è un nuovo territorio per noi in quanto a specie, non una bonifica del vecchio suolo. Tuttavia, questo non dovrebbe allineare il progetto d’incarnazione ad una grande teoria modernista del progresso – piuttosto, la specificità e la molteplicità dell’incarnazione potrebbero essere più congruenti con una sensibilità postmoderna che riconosce la natura unica, fluida e contingente dell’esperienza incarnata.
Integrando queste comprensioni con il concetto di performatività (Butler, 1993) è possibile suggerire ulteriori implicazioni per la pratica che esprimono la questione del come la psicoterapia somatica, se criticamente informata, potrebbe affrontare gli effetti concreti dell’oppressione. Se le diseguali categorie sociali su cui si regge l’oppressione (Johnson, 2001) sono culturalmente costruite attraverso “discorsi regolativi” (inclusi quelli non verbali) (Manusov, 2006), è la ripetizione di atti modellati da questi discorsi che mantiene la comparsa di un’identità coerente. In breve, se l’oppressione dipende da categorie sociali naturalizzate di disuguaglianza, potere e status, l’idea che l’identità è performativa (cioè non dipende da differenze naturalizzate ma da atti reiterativi), la modifica di tali atti sconvolge le categorie da cui dipende l’ineguaglianza sociale.
Dato il valore della comunicazione non verbale nello sviluppo della coscienza critica articolata dai partecipanti a questa ricerca, ne consegue che la psicoterapia somatica anti-oppressiva che incorpora materiale psicoeducativo alla comunicazione non verbale potrebbe fornire ai clienti l’opportunità di sperimentare tali cambiamenti e sviluppare una grado di alfabetizzazione somatica più raffinato ed efficace (Linden, 1997).
Mentre la coltivazione delle pratiche d’incarnazione cosciente e lo sviluppo dell’alfabetizzazione somatica costituiscono le due implicazioni chiave per la pratica basate sulla conoscenza e le intuizioni dei partecipanti a questo studio di ricerca, dai risultati sono emerse anche ulteriori implicazioni diverse. La prima suggerisce una particolare qualità terapeutica di relazione, basata sulla descrizione di Zaylie degli effetti somatici residui dell’oppressione. Mentre lei afferma di avere “questo tipo di catrame che ricopre tutto il mio interno”, riconosce inoltre che questo residuo le impedisce di assorbire nutrienti emotivi, psicologici e relazionali – impedisce di essere influenzati da esperienze positive con gli/le altr*. Non è solo il suo corpo a vivere con gli effetti residui dell’oppressione, ma quell’oppressione interferisce con la sua capacità di… impegnarsi ed essere nutrita dal mondo. Ne consegue che se l’esperienza di oppressione di Zaylie ha compromesso la capacità di essere influenzata da esperienze positive (e potenzialmente trasformative) e di essere protetta da esperienze dannose, è evidente l’importanza di un coinvolgimento genuino tra terapeuta e cliente nella terapia. Prendersi il tempo necessario per stabilire un ambiente sicuro e nutriente in cui i modi unici nei quali gli individui incarnano l’oppressione (e imparano modi per proteggersi dall’oppressione attraverso il corpo) può essere ancora più importante del solito per i clienti alle prese con i suoi effetti somatici.
Questa particolare scoperta ha anche un’altra possibile implicazione per la pratica. Laura Doyle (in Cohen e Weiss, 2003) suggerisce che l’arte della narrazione diventa un modo per scivolare in sicurezza nel corpo soggettivo. Per il soggetto abbietto, le parole offrono un modo di toccare il corpo e di esserne toccati senza dolore. Dato il notevole livello in cui i partecipanti sono stati in grado di rivelare ferite molto personali e profondamente preoccupanti, questo studio è in grado di fornire alcune affermazioni sul valore della narrativa nelle pratiche psicoterapeutiche progettate per aiutare i clienti ad accedere a materiale simile.
Conclusione
Questo articolo descrive le esperienze incarnate di individui che hanno affrontato varie forme di oppressione, e collega quelle esperienze alle implicazioni per la teoria e la pratica della psicologia somatica in un mondo sociale sempre più diversificato.
Sebbene le storie che raccontano offrano esempi del trauma e della disconnessione che derivano dal abuso del potere interpersonale e sociale, offrono anche la promessa di speranza e cambiamento. Nonostante l’aver incarnato ferite inflitte nel corso di una vita di rapporti di potere ingiusti e iniqui, ciascuno dei partecipanti a questo studio ancora vive il proprio corpo come un’importante fonte di conoscenza e potere.
Questa ricerca fornisce alcune prove della relazione tra gli effetti somatici del trauma e le risposte incarnate all’oppressione. Mentre le correlazioni empiriche tra trauma e oppressione (e oppressione come una forma di trauma cronico) non sono ancora stati stabiliti, esistono solidi collegamenti teorici (Burstow, 2003) e i dati di questo studio suggeriscono che ulteriori ricerche per articolare gli effetti somatici specifici dell’oppressione come forma di trauma vale la pena siano perseguite. Lo studio sottolinea anche come la natura emergente del corpo esperito (Grosz, 1994) fornisce un mezzo per trasformare l’oppressione, e le narrazioni in questo studio offrono vivide illustrazioni del modo nel quale il corpo assume una potenziale fonte di conoscenza personale, azione, potere ed espressione creativa. Suggerisce che la speranza della giustizia sociale può essere realizzata in parte attraverso il recupero dei nostri corpi come fondamento necessario della nostra (inter)soggettività (Csordas, 1994).
Sebbene questo studio offra solo l’inizio di suggerimenti su come il progetto di trasformazione dell’esperienza vissuta di oppressione possa continuare attraverso la psicoterapia somatica e la psicoeducazione, spero che fungerà da punto di riferimento intrigante e stimolante per ricercatori, professionisti, educatori, comunità di attivisti e altri che sono interessati a impegnare la capacità del corpo di resistere e trasformare l’oppressione.
Rae Johnson
www.embodiedphilosophy.com
Image by Luis Villasmil
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- Una pratica che incontra oriente e occidente
Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.
Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.
Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.
Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.
Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.
GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA
Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.
Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).
Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.
Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.
LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA
Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.
Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.
Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.
ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO
Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.
E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)
Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.
Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.
La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.
LA MAPPA DELLA COSCIENZA
La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.
Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.
Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.
Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.
Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.
UN PRINCIPIO FONDAMENTALE
Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.
E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.
Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.
Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”
Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.
Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.
Claudia Panico
claudia@claudiapanico.com
- Una pratica che incontra oriente e occidente
Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.
Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.
Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.
Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.
Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.
GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA
Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.
Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).
Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.
Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.
LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA
Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.
Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.
Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.
ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO
Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.
E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)
Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.
Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.
La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.
LA MAPPA DELLA COSCIENZA
La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.
Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.
Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.
Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.
Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.
UN PRINCIPIO FONDAMENTALE
Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.
E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.
Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.
Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”
Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.
Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.
Claudia Panico
claudia@claudiapanico.com
- Una pratica che incontra oriente e occidente
Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.
Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.
Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.
Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.
Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.
GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA
Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.
Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).
Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.
Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.
LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA
Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.
Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.
Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.
ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO
Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.
E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)
Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.
Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.
La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.
LA MAPPA DELLA COSCIENZA
La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.
Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.
Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.
Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.
Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.
UN PRINCIPIO FONDAMENTALE
Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.
E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.
Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.
Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”
Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.
Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.
Claudia Panico
claudia@claudiapanico.com
- Una pratica che incontra oriente e occidente
Da pochi giorni si è concluso il ritiro estivo di Respirazione Olotropica e Meditazione Vipassana che io e Pietro Thea proponiamo due volte all’anno. E’ uno dei seminari che amo di più.
Questi due metodi e la filosofia che li anima possono sembrare opposti, ma in realtà sono complementari, con prospettive e tecniche comparabili.
Desidero parlare brevemente proprio di alcuni di questi aspetti.
Come ho scritto in un precedente articolo su Matrika, la pratica della Respirazione Olotropica è stata creata negli anni ‘70 da Stanislav e Christina Grof, e si fonda sulle ricerche sulla natura della psiche effettuate da Grof stesso a partire dagli anni 50, all’inizio a Praga, sua città di nascita, e successivamente negli Stati Uniti, prima in un centro di ricerca nel Mariland, e poi ad Esalen in California.
Grof è stato uno dei fondatori della Psicologia Transpersonale, ed è considerato uno dei principali successori di Freud e Jung.
GLI STATI OLOTROPICI DI COSCIENZA
Un punto chiave nel pensiero di Grof è il concetto di “Stati Non Ordinari di Coscienza”. L’idea è che la nostra concezione ordinaria della realtà, ciò che sperimentiamo nella vita quotidiana, si basa solamente su alcune capacità limitate della nostra mente, ma che abbiamo la potenzialità per entrare in stati di consapevolezza che mostrano la realtà come infinitamente più vasta e complessa di come la sperimentiamo ogni giorno.
Grof ha ripetutamente verificato come alcuni Stati non Ordinari di Coscienza hanno un potenziale terapeutico ed euristico molto elevato, e li ha chiamati Olotropici, un termine che significa “muoversi verso la totalità, la completezza”, dal greco holos (tutto) e trepein (andare verso).
Molte culture nel mondo e nella storia hanno studiato i metodi per entrare in questi stati: nella maggioranza utilizzano il respiro, il suono dei tamburi, la danza, il digiuno, l’uso di piante psicotrope.
Un altro dei modi per entrare in uno stato olotropico di coscienza è la meditazione. Ormai da anni gli studi su monaci e praticanti avanzati di meditazione mostrano una chiara modificazione delle onde cerebrali e altri parametri fisici scientificamente misurabili.
LA NASCITA DELLA RESPIRAZIONE OLOTROPICA
Da quando l’LSD divenne illegale negli anni settanta e tutte le ricerche sui suoi effetti terapeutici vennero interrotte (di questo parlerò in un prossimo articolo), Grof e sua moglie Christina hanno sviluppato un metodo per indurre stati olotropici senza l’uso di sostanze psicotrope, basandolo sui risultati delle ricerche svolte con l’LSD, le pratiche sciamaniche, e le pratiche orientali di consapevolezza.
Questo metodo, da loro chiamato Respirazione Olotropica, si basa sull’uso di rilassamento, respirazione profonda, e una colonna sonora composta di musiche etniche, preparata specificamente per sostenere l’esperienza e per facilitare l’accesso a stati non ordinari. In questi stati, la persona riesce ad entrare in strati profondi del proprio inconscio, per favorire la risoluzione di conflitti psichici, e sperimenta la propria interconnessione con gli altri esseri umani, con l’inconscio collettivo, con la rete della vita, e con un contesto spirituale.
Alcune delle tecniche che i Grof hanno sviluppato, e il modo di vedere il mondo e la realtà che emergono da queste esperienze, riecheggiano le pratiche e gli insegnamenti Buddhisti.
ORIENTE E OCCIDENTE SI INCONTRANO
Prima di tutto, la RO condivide con la Meditazione Vipassana l’enfasi sul respiro.
E’ importante notare che la centralità del respiro non è relativa esclusivamente all’aspetto di processo fisico che permette la vita, ma anche al suo significato simbolico di collegamento al regno dello spirito. Questo legame è profondamente radicato nel nostro linguaggio. Il termine latino spiritus si riferisce sia al respiro che all’anima o al principio vitale, la stessa cosa è vera per la parola greca pneuma, il termine cinese qi, il giapponese ki, il sanscrito prana e l’ebraico ruach. Nella Bibbia leggiamo:” E Dio creò l’uomo, ……..e soffiò nelle sue narici il respiro della vita; e l’uomo divenne un’anima vivente” (Genesi 2,7)
Un altro principio fondamentale nella Respirazione Olotropica è “il guaritore interiore”. Con questo concetto si intende il fatto che ognuno di noi conosce spontaneamente ciò di cui ha bisogno per risolvere i propri conflitti interiori, e per andare verso la pienezza. Se andiamo abbastanza profondamente nel nostro inconscio, troviamo qualcosa di fondamentalmente buono, e che tende alla salute. Questo concetto è molto lontano da quello di peccato originale di cristiana memoria, ma è vicino alla nozione Indù di atman, la divinità interiore, concetto fondamentale anche nel Buddhismo Mahayana, al quale talvolta ci si riferisce come alla “natura Buddha”. Senza andare in sottili distinzioni non utili in questa sede, il punto focale è che sia il Buddhismo che la RO accettano il fatto che nel nucleo siamo “nati nobili” – cioè siamo buoni, e conosciamo ciò di cui abbiamo bisogno per realizzare pienamente la nostra vita.
Forse nessun principio è più fondamentale nel Buddhismo di quello di “interconnessione”, la nozione che noi siamo solamente una manifestazione transitoria di una rete infinita di realtà interdipendenti, sia materiali che spirituali, radicate nella realtà ultima del principio divino. Ogni cosa dipende da qualcos’altro per la sua esistenza, ed è in definitiva collegata con tutto ciò che è.
La RO può permetterci di intravedere brevemente questa realtà anche esperienzialmente.
LA MAPPA DELLA COSCIENZA
La mappa della coscienza che Grof ha redatto sulla base di 50 anni di ricerca – forse il suo contributo più importante alla psicologia del profondo – elenca tre livelli fondamentali della nostra mente inconscia, che possiamo esplorare nel viaggio interiore.
Il primo è personale, biografico, e contiene gli elementi della nostra esperienza di vita che giacciono al di sotto del livello della coscienza. E’ il medesimo di cui parla Freud.
Il secondo è un livello più profondo che si incontra quando siamo in uno stato non ordinario, e sembra contenere le memorie della propria nascita, e viene chiamato “perinatale”. E’ stato esplorato per la prima volta in psicologia da Otto Rank.
Attraverso l’esperienza del livello perinatale possiamo direttamente avere accesso ad un livello della psiche ancora più profondo, che Jung ha chiamato inconscio collettivo.
Le profonde esperienze che possiamo fare a questo livello hanno importanza non solamente in ambito psicologico, ma per la nostra intera concezione di ciò che è la realtà.
UN PRINCIPIO FONDAMENTALE
Queste esperienze indicano chiaramente come la coscienza non è meramente un sottoprodotto di processi chimici o fisici nel cervello umano, perché in tali esperienze è possibile avere accesso ad elementi di consapevolezza che non erano entrati precedentemente nelle nostra vita biografica. Implica che la coscienza è un principio fondamentale dell’esistenza. Qualcosa che permea la realtà.
E’ una visione coerente con le nozioni Buddhiste fondamentali: siamo connessi l’uno con l’altro, e con il resto di ciò che esiste non esclusivamente sul livello materiale, ma a livello della coscienza.
Negli stati non ordinari, per esempio, le persone hanno provato che possono identificarsi per esempio con la coscienza di un antenato, o anche di un albero.
Jack Kornfield, uno dei primi psicologi ad andare in oriente come monaco per studiare e praticare direttamente la meditazione Vipassana, scrive nella prefazione di un recente testo di Grof “che offre una psicologia per il futuro, che espande le nostre possibilità umane e che ci riconnette gli uni con gli altri e con il Cosmo….” E continua dicendo “ nel mio addestramento come monaco Buddhista sono stato introdotto per la prima volta alle potenti pratiche del respiro, ed ai regni visionari della coscienza. Mi sento fortunato a trovare nel lavoro di Grof un incontro potente per queste pratiche nel mondo Occidentale.”
Grof e Kornfield hanno infatti condotto per anni un workshop noto come “Insight and Opening”, che combinava le tecniche della Meditazione Vipassana alla Respirazione Olotropica.
Io e Pietro abbiamo partecipato più volte a quegli incontri, e abbiamo provato personalmente l’efficacia e il potere trasformativo di questi due metodi congiunti. Come Jack ha detto una volta, queste tecniche “contattano il luogo della propria saggezza interiore”, con una modalità simile in entrambe: portare l’attenzione alle immagini , ai pensieri ed alle emozioni che sorgono nella coscienza, sperimentarle pienamente, e poi, senza giudizio o analisi, lasciarle andare con gentilezza.
Claudia Panico
claudia@claudiapanico.com