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by Jerry Diamanti

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Come donne e uomini nati o cresciuti nella parte occidentale di questo mondo, quando guardiamo alle pratiche culturali e politiche degli “altri” dobbiamo porre molta attenzione a non comportarci da etnocentrici e pensare che la nostra visone di società, nel mio caso libertaria, sia unica ed esportabile in tutto il mondo. Credo che anche in questo caso, per affinare il nostro sguardo sull’alterità culturale, l’antropologia ci possa venire in aiuto con l’approccio relativista.

Ma cos’è il relativismo? È una teoria formulata a partire dal particolarismo culturale di Franz Boas e dall’antropologo statunitense Melville Jean Herskovits secondo i quali, considerato il carattere universale della cultura e la specificità di ogni ambito culturale, ogni società è unica e diversa da tutte le altre, mentre i costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico. Questo significa che i bisogni umani universali possono essere soddisfatti con mezzi culturalmente e politicamente diversi. Direi che su questo le lettrici e i lettori di Matrika non dovrebbero avere dubbi.

Quindi l’idea che gli elementi di una cultura debbano essere compresi e analizzati a partire dal contesto in cui agisce la specifica cultura porta alla conclusione che non si può considerare una cultura superiore o inferiore ad un’altra. Anche su questo non dovremmo avere dubbi.

È stato l’antropologo Melville Herskovits ad affermare, sulla scia dei precedenti fondamenti espressi da Franz Boas, che la specificità di ogni ambito culturale non consente analisi di carattere generale sul confronto tra culture.

Questa visione del mondo culturale degli “altri” ci mette in crisi e più che certezze fa nascere dubbi, ma questo non ci deve spaventare; l’importante è far diventare questi dubbi la possibilità di risposte nuove, la creazione di corpi politici ibridi e inediti.

Dobbiamo farla finita con il pericoloso e dannoso sguardo coloniale
[1] che ancora ci attanaglia, dobbiamo essere in grado di fare i conti con il colonialismo e liberare i nostri sguardi troppo spesso eurocentrici e giudicanti. Per decostruire i nostri immaginari coloniali ci possono aiutare gli studi (post)coloniali, semplificando, potremmo dire che si raccolgono attorno a tre distinti filoni d’indagine critica: il primo, inaugurato da Orientalism di Edward Said nel 1978 ed ispirato alla teoria del discorso di Michel Foucault, si fonda sulla interpretazione del colonialismo come formazione discorsiva alimentato dalle istituzioni materiali dell’Impero; il secondo filone affonda nel pensiero decostruzionista e, come chiarisce Gayatri C. Spivak nel 1990 in The Post-colonial Critic, definisce il discorso coloniale come il prodotto retorico degli assiomi imperialistici che attengono in particolare alle questioni di razza e di genere; il terzo filone, il cui fondamento va ricercato nella psicoanalisi lacaniana che Homi K. Bhabha rilancia in The Location of Culture del 1994, è caratterizzato da una analisi della formazione del soggetto coloniale e dei processi di ibridazione nei quali colonizzati e colonizzatori sono coinvolti.

Anche le antropologhe e gli antropologi hanno sviluppato pratiche e teorie post-coloniali e non egemoniche, dove l’altro non era più una stranezza culturale da studiare ma un soggetto interlocutore con il quale rapportarsi.

Per questo ancora oggi dal mio punto di vista il concetto di relativismo culturale è imprescindibile sul campo. Trovo fondamentale ricordare che è stata una donna, Margaret Mead, che grazie alla sua attività divulgativa, la cui opera più celebre, L’adolescente in una società primitiva, può essere considerata paradigmatica dell’utilizzo di argomentazioni di carattere relativistico come strumento di critica della società occidentale.

Il testo è frutto di una ricerca nelle isole Samoa, nella quale l’autrice sosteneva che le difficoltà personali incontrate dalle adolescenti occidentali, non sono universali e necessarie, ma contingenti e generate prevalentemente dalle costrizioni e dalle imposizioni che gli elementi più tradizionalisti e moralistici della cultura occidentale impongono. Le adolescenti samoane, al contrario, sarebbero lasciate libere di giungere alla maturità fisica, identitaria, sessuale, sociale, senza condizionamenti eccessivi e non soffrirebbero delle crisi e delle difficoltà incontrate dalle occidentali. Questo è un caso particolare, ma paradigmatico per capire il concetto relativista.

L’impegno dell’antropologia, soprattutto nel periodo che va dai suoi esordi fino alla seconda guerra mondiale produce come conseguenza il superamento dell’antitesi tradizionale tra la superiorità della cultura europea e l’inferiorità degli altri popoli. Sono convinto che il pensiero libertario deve abbandonare completamente un approccio etnocentrico; non può pensarsi unico, giusto ed esportabile tout court nel pianeta, dobbiamo comprendere l’importanza di uno sguardo relativista. Il relativismo culturale è una risposta all’etnocentrismo e nega l’esistenza di un’unità di misura universale per la comprensione dei valori culturali e politici, poiché ogni cultura è portatrice di valori e norme che non hanno validità al di fuori della cultura stessa.

L’emergenza del relativismo culturale ha facilitato una comprensione più profonda e meno superficiale delle culture differenti da quella occidentale. Ma facciamo attenzione, quello che io propongo è un metodo per comprendere l’altro, non una sospensione totale del giudizio e del posizionamento politico dell’individuo. Per questo è molto importante fare una distinzione tra relativismo culturale e relativismo etico; il primo è quello che io propongo per meglio comprendere la cultura e la politica degli “altri”.

Il relativismo culturale (metodologico) va tenuto distinto dal relativismo etico: mentre il primo costituisce un approccio metodologico, indica cioè quale debba essere la metodologia corretta per analizzare i fenomeni culturali, il secondo si riferisce ad un atteggiamento di sospensione del giudizio etico e morale circa usanze, politiche e costumi presenti nelle varie culture. Per il relativismo etico, vale il principio di equivalenza di ogni prescrizione morale; se infatti non esiste una verità assoluta di riferimento in base a cui poter distinguere il bene dal male, allora tutto è lecito, affermazione che pretende di porsi a sua volta come una norma assoluta, a dispetto del presunto carattere “non prescrittivo” del relativismo. Non è tutto relativo, al contrario; ma per comprendere gli “altri” dobbiamo relativizzare il nostro sguardo.

Andrea Staid

Andrea Staid Blog

1 Per colonialismo si intende la politica di conquista, invasione e depredazione di territori e risorse (materiali e umane) attuata dalle potenze europee a partire dal XV secolo. Indica inoltre l’insieme dei principi a sostegno di tale politica e, infine, l’organizzazione del sistema di dominio. Lo sviluppo del colonialismo può essere distinto in due fasi: la prima, che parte dal XV secolo fino alla metà del XIX secolo; la seconda, che parte dagli ultimi decenni del XIX secolo e termina a metà degli anni Settanta del Novecento con il crollo del sistema coloniale portoghese. Purtroppo la mentalità colonialista e i soprusi economici e politici colonialisti delle potenze occidentali sono ancora in atto anche se formalmente e storicamente il periodo coloniale dovrebbe essere concluso.