La meditazione, traduzione approssimativa del sanscrito “dhyana”, viene così definita da Sw. Satyananda, fondatore della Bihar School of Yoga, nel suo commento agli Yoga Sutra di Patanjali:” è semplicemente un’estensione di dharana. Sorge quando si è capaci di mantenere un calmo, omogeneo flusso di concentrazione sul proprio simbolo interiore per un certo periodo di tempo”.
L’attenzione si sposta dunque su “dharana” la concentrazione, che viene così definita da Patanjali: “la concentrazione consiste nel fissare la mente in un posto” (3.1)”, qualcosa di molto più definito “del chiudi gli occhi ed aspetta” del suddetto insegnante.
Per entrare in uno stato mentale particolare, che chiamiamo meditazione, occorrono tutta una serie di esercizi di concentrazione che ci portano dal generale al particolare su cui si focalizza tutta l’attività mentale: lavoro complesso e di difficile attuazione perché la nostra mente è continuamente distratta da mille pensieri che sorgono spontaneamente e spesso senza motivo.
Sw. Chidananda, allievo ed erede spirituale di Sw. Shivananda di Rishikesh, nel suo libro “Medita queste verità” sostiene la stessa tesi: una serie successiva di concentrazioni, dal materiale al sottile, ci porta ad uno stato di meditazione. A questo punto è chiaro che dharana è lo strumento per entrare in dhyana che è uno stato particolare della mente che, se mantenuto a lungo, ci fa entrare nel tanto sospirato samadhi, nelle sue varie forme.
La confusione fra i due termini dipende anche dall’aver accettato di tradurre dhyana con meditazione, dimenticando che nella cultura occidentale ci sono diversi concetti di meditazione; per esempio la meditazione riflessiva, la trascendentale, la contemplazione, l’estasi; per citarne alcuni. Tutti coinvolgono la mente ma in modo diverso: nel primo c’è il ragionamento, nel secondo la concentrazione, nel terzo l’abbandono, nel quarto l’annullamento.
Il termine dhyana li sintetizza nel modo migliore. Per entrare in questo stato ci sono diversi esercizi che aiutano la mente ad introvertirsi sempre più, a distaccarsi dal materiale, a cessare il continuo ragionamento, a ridurre sino all’eliminazione l’attività di pensiero, il chiacchericcio interiore. Non dobbiamo quindi parlare di esercizi di meditazione ma di esercizi di concentrazione.
Fra i tanti il più comune ed, a mio parere, il più efficace è “trataka”. Amo definire trataka come l’inizio di un percorso che ti porta dal reale al non reale, dal manifesto all’immanifesto, dalla concentrazione alla meditazione.
Si comincia di solito con la pratica di “bahir trataka” la concentrazione su un oggetto esteriore, solitamente la fiamma di una candela, ma potrebbe essere un oggetto simbolico o un’immagine, su cui si fissa lo sguardo in modo determinato, senza battere ciglio, per almeno tre/cinque minuti. Dopo di che si chiudono gli occhi e si entra in uno stato di “antar trataka”, la concentrazione interiore. L’oggetto di concentrazione esterna permane qualche istante per l’effetto retinico, poi gradualmente si dissolve lasciando spazio ad “antar mouna” la possibilità di realizzare il silenzio interiore, l’assenza del pensiero e del ragionamento che ci perseguita sia di giorno che di notte. Questo stato si raggiunge con una serie di concentrazioni successive, sull’attività sensoriale sulle visioni interiori, sull’attività della mente, sino a quando tutto si tace.
A questo punto si entra nella terza fase: chidakasha dharana. Akasha significa spazio e chid l’unione dei tre stati coscienziali: conscio, sub conscio e super conscio. La concentrazione prolungata su questo punto in cui si riuniscono tutte le memorie, quelle di questa vita e della vite precedenti, dalla memoria cromosomica alle memorie akashiche, porta alla stato di meditazione, a dhyana.
Lo spazio di chidakasha può essere immaginato come una cabina di pilotaggio; sul pavimento un buco con un grosso tunnel che va verso il basso, sushumna nadi; di fronte a voi il parabrezza con appeso al centro il vostro simbolo; fuori lo spazio infinito, il non manifesto.
Potete immaginare di essere in auto, di guidare nella nebbia; siete concentrati nella guida ma la vostra attenzione è sulla strada, su cosa c’è oltre il parabrezza, lo spazio infinito, il paesaggio vero, offuscato dalla nebbia. La perfetta, prolungata concentrazione su questo spazio consente di entrare in contatto con le dimensioni sconosciute della nostra mente, delle sue capacità di indagare le cose occulte e di mettersi in contatto con i piani più alti della conoscenza. E’ opportuno che questo percorso, che inizia con bahir trataka e culmina in dhyana, attraverso un continuo stato di dharana, sia guidato da un insegnante esperto, un “upa guru”, che conosca bene le caratteristiche del proprio allievo che deve possedere stabilità mentale e costanza nella pratica. E’ inoltre necessario introdurre alcune tecniche di pranayama e procedere con gradualità: la nostra mente e le sue reazioni, malgrado tutti gli studi fatti, è ancora in larga parte sconosciuta e solo chi ha percorso questo sentiero più e più volte, è in grado di farvelo percorrere in assoluta sicurezza.
Questa è la strada che noi usiamo solitamente ma, ovviamente, ci sono tante altre vie: ogni scuola ha la sua. Ed ognuno deve cercare quella che meglio si adatti alla propria individualità, evitando le scorciatoie offerte da tanti moderni ricercatori che raramente portano al traguardo finale. Nella maggior parte dei casi si tratta di tecniche psicanalitiche o di estrapolazioni parziali dalle tecniche tradizionali per renderle più accessibili ai pigri o agli incostanti o ai frettolosi.
La meditazione, quella vera, richiede tempo, pazienza e forza di volontà.
Swami Virananda
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