C’era una volta un medico occidentale.
Per ventura o per destino un lontano giorno del luglio 82 si ritrovò con la sua testa calda, pulsante e dolente, sotto il cielo notturno di Belo Horizonte (Brasile) con le sue stelle diverse e la luna orizzontale. Sotto di esse passeggiò trepidante per le strade periferiche e mal disegnate del Bairro (quartiere) Apareçida, alla ricerca di immagini familiari che tranquillizzassero la sua mente, senza trovarle. Caldo di febbre e fervore salì scale sapide d’aglio. Profano, scettico, titubante, ricercatore, complice e distaccato, incapace di essere semplicemente semplice, varcò la soglia di un Terreiro (tempio) di Umbanda , fece il suo ingresso nella sacralità scomposta della Tradizione Sciamanica Afro-Brasiliana.
Cosa ci facesse lì non gli era affatto chiaro, cosa avesse da spartire con quelle moltitudini povere, scure ed incolte che lo circondavano da ogni lato? Le vedeva salire le scale ripide e strette di cemento grezzo, varcare a manciate la porta del tempio, avvicinarsi all’altare, chinarsi per battere il capo a terra in segno di devozione agli Orixàs (divinità), disporsi per file parallele tra le panche di legno consunto, chiudere gli occhi e restare in silenzio o forse pregare. Alcuni mantenevano lo sguardo fisso, tipico del rapimento mistico verso l’altare zeppo di statue dalle fogge più strane. Altri, meno assorti, si guardavano intorno, scorgendo così le effigi sul muro, i medium vestiti di bianco che tracciavano segni col gesso sul pavimento o disponevano le oferendas (offerte) e as comidas (cibi) per i diversi Orixàs. Lui, come non faticherete a credere, era tra quelli che si guardavano in giro con aria annoiata e per di più ipercritica nei confronti di quella “Loreto dei poveri” dove le statue della Madonna nera avevano il naso rotto e gli ex-voto erano quattro scalcinate effigi di plastica. A chi lo accompagnava ebbe la sventatezza di chiedere e quegli l’audacia di rispondere: ” Ogni statua figlio mio rappresenta un Orixà o un Egun. Gli Orixàs, sono le divinità delle diverse forze naturali, mentre gli Eguns sono quelle entità spirituali di esseri che hanno avuto una vita terrena. Nell’Umbanda abbiamo sete linhas ,vale a dire sette vibrazioni archetipiche nelle quali vengono raggruppati i diversi Orixàs e i relativi Eguns.” Nel frattempo, i canti, sparsi dovunque, rendevano lo spazio denso dal moto occulto di forze presenti, le statue e le immagini di santi e demoni, cominciavano a prendere forma vivente in vecchi ricurvi, aitanti guerrieri o profeti di casa, conferendo storia a quelle scalcinate mura, nere di fumo. I volti, più che altro poveri e neri, coloravano il resto di antico sudore, il calore rappreso nelle panche consunte sotto un tetto d’amianto ricordava a chiunque che stava nel “versante scordato”, la parte del mondo che non faceva notizia. E poi venne un canto soave: ”Salve o sol, salve a lua, salve a todos os Orixàs”. Come appena emersa dalle onde dell’oceano, una venere azzurra, adorna di stelle e trecce corvine distese sulla pelle ramata, opulenti i seni di casto erotismo, stava intonando il suo canto ad Iemanjà, la divinità dell’acqua salata. I suoi gesti lenti ed ondulati si mischiavano a quelli aguzzi di maschi perlati dal sudore del dio, che mostravano muscoli e passione guerriera mentre tracciavano lo spazio con segni di spada e, di tanto in tanto, gridavano: ”Auè, Ogun, guerreiro da lei”, salutando così la presenza di Ogun, l’orixà del metallo, divinità guerriera. Poco più in là, sontuosa e gialla nella sua vanità rotonda, una fanciulla orlata di perle e vesti da bazar danzava la danza di presentazione di una dea sorniona, Oxum, l’orixà dell’acqua dolce. Ovunque, uomini e donne biancovestiti, i medium unificati dalla “corrente astral da Umbanda” (catena astrale dell’Umbanda) ruotavano su se stessi, cantavano, emettevano versi. Quando le danze, i canti, gli incensi resero l’atmosfera propizia, e le anime discesero per la dovuta carità, egli, forte del suo ingorgo culturale, credeva ancora di poter restare alla finestra, ma non fu così.
Stava per conoscere, per la prima volta e sulla sua pelle, il significato di un termine che avrebbe da quel giorno in poi marcato a fuoco la sua esistenza: si trattava del termine Transe. Mentre tamburi scandivano i ritmi dei diversi orixàs, sigari ed incensi si accendevano, lance e rossi mantelli si agitavano, cerchi col fuoco o segni col gesso venivano tracciati sul pavimento dai medium , i devoti si disponevano in fila come i cattolici per la comunione e si recavano al cospetto delle varie entità spirituali, “incorporate” dai medium, per chiedere e ricevere benedizione, consigli e conforto.
Mae Divina, la mae do santo responsabile del terreiro, ricamata dal bianco delle vesti, dal rimbalzo colorato di perle di vetro e dal piglio deciso di Giovanna D’arco, intonava i pontos cantados (canti ) coi quali si richiamavano le diverse entità, fumava sigari e scandiva i tempi della cerimonia col suono della campanella. La sua presenza riempiva. Quando avanzò tra la folla, lo additò e lo chiamò, lui andò. Bastarono una mano sulla testa e una parola sussurrata perchè anch’egli diventasse, in breve, un isterico che si agitava. Come il serpente la sua pelle, così sentì l’ego scivolargli di dosso. Sentì incrostazioni di anni scrollarsi dalle sue spalle, dalla sua nuca. Girava e girando andava in pezzi l’ingorgo culturale della sua mente rozza, le sue certezze venivano portate lontano come polvere cosmica nel mondo parallelo abitato dal nulla. Girava senza trovare un posto dove appoggiare i suoi piedi, un punto di riferimento al quale affidare i suoi pensieri. Era solo nel buio, la leggerezza che provava gli pareva insostenibile, il senso di apertura era talmente profondo nelle sue cellule da confondersi con un senso di disintegrazione, la paura si confondeva con la gioia, il buio con la luce. Gli sembrava di non esserci, eppure era totalmente consapevole, si sentiva fermo eppure stava girando, gli sembrava di urlare, eppure era in silenzio. Gli sembrò di volare verso l’alto quando vibrò e cadde. Non so quanto tempo rimase nella luce che vedeva, nell’amore che sentiva.
La leggerezza si prese cura di lui, la gioia gli sorrise nel cuore, apri gli occhi e vide Mae Divina che non aveva mai smesso di vegliarlo, intonare un canto di ringraziamento: ”Oxalà meu pai, tem pena de nos tem dor…”
Quando sii riebbe, lei lo abbracciò e lo rassicurò, Pai Cruzeiro era sempre rimasto al suo fianco e Caboclo Flecheiro (1) lo aveva condotto nel viaggio. Adesso anche lui aveva una guida spirituale, avrebbe solo dovuto continuare il suo percorso di realizzazione, allenando la sua medianità.
Nulla di ciò che gli era successo e gli continuava a succedere gli risultava chiaro. La sua mente era vuota, il suo cuore leggero, i suoi occhi chiari, forse per la prima volta. Si guardava intorno, l’ambiente che poco prima gli era sembrato grottesco e alquanto dissacrante con le sue statue colorate ed effigi da quattro soldi raffiguranti santi cattolici mischiati a personaggi disincarnati o entità africane, ora trasudava sacralità ed aristocrazia. I volti stanchi e rassegnati della povera gente che gli stava intorno gli svelavano il loro profondo e prezioso messaggio di saggezza: “Ciò che muove il mondo è l’amore, ciò che ti ammala e ti fa soffrire è l’amore che non sai dare. E non c’è niente da capire.”
Occhi chiari…
Da quella mia prima esperienza estatica di ordine sciamanico ne sono trascorsi di anni e di acque sotto i ponti. La via sciamanica è diventata la mia via, percorrendola la vita mi ha condotto in spazi assolutamente inconcepibili per la mia mente di allora, più volte mi ha mostrato l’imminenza del disastro e dischiuse le soglie della grazia, ma quando mi fermo e ascolto la sua voce, immancabilmente la sento recitare:
Occhi chiari, mente vuota, cuore leggero.
Allora, doverosa, giunge la riflessione: Come è successo che i nostri occhi si siano appannati, il nostro cuore appesantito, la nostra mente riempita?
La metafora della cacciata dal paradiso terrestre, come ogni mito ci parla della storia dell’uomo. Di una storia non raccontata.
L’eredità della tribù
Il giorno in cui l’uomo cacciatore-raccoglitore scoprì che poteva seminare e produrre da sè il proprio nutrimento si fermò. Nacquero i primi villaggi, l’agricoltura ed ebbe così inizio la storia.
Sembra che, con quei primi semi vegetali, l’uomo preistorico piantò anche i primi semi della cultura del dominio. Il dominio sulle forze della natura e di conseguenza sulla propria e sull’altrui natura.
Lungo questa strada prese il via l’inarrestabile corso del progresso tecnologico che ci portò dalla zappa al compiuter, dall’era preistorica all’era moderna.
Ed ecco l’uomo moderno, il quale trova scontato che il progresso tecnologico e culturale debba procedere di pari passo con l’aumento del controllo esercitato dalla sua specie sul mondo naturale.
La logica del controllo si è via via radicata sempre più profondamente nella mente dell’uomo tanto da imporre un regime autoritario rigidamente determinato dai codici della ragione. Le intense emozioni, gli stati alterati della coscienza, la passione erotica, l’esperienza estatica della natura, l’immaginario, l’ascolto, il silenzio sono vissute dal senso comune come questioni “poco serie”, o quanto meno un po’ strane, esotiche, se non addiritura pericolose o peccaminose.
La logica del controllo ha portato con sé quella che Reich chiama la “morale coercitiva”, ha imprigionato l’individuo nell’ossessione del pieno e nel terrore del vuoto.
La nostra è una cultura piena, drammaticamente sbilanciata sul versante esteriore. Non fare è vissuto come ozio, chiudere gli occhi come dormire, silenzio come tristezza, solitudine come disagio, occuparsi di sé come segno di malattia, andare piano come inefficienza.
Ma non fu sempre così.
La via della condivisione
Molto spesso si sente dire che la nostra cultura occidentale è razionale mentre quella orientale è più intuitiva, meditativa. La mente umana è avvezza alla generalizzazione e per semplificare, troppo spesso banalizza, per capire troppo spesso si offre in pasto a presupposti impliciti, per non inquietarsi resta in superficie, dimentica.
Dimentica che tutti noi, belli e brutti, colti ed ignoranti, bianchi e neri, orientali ed occidentali, abbiamo scritto nei geni il racconto implicato delle migrazioni nelle grandi pianure in cerca di cibo, il terrore dell’urlo bestiale, degli occhi gialli in agguato, padroni del regime notturno, del raggio che scende dal cielo ed incenerisce il malvagio. Dimentica di avere scritto le pagine della sua storia culturale con la grammatica dell’esperienza estatica compiutasi tra le foreste ed il cielo a disporre pietre verso l’alto e danzare alla luna. Dimentica che prima di separarsi dalla natura per creare la storia, per millenni riconobbe nelle manifestazioni naturali il linguaggio parlato dagli dei del mondo parallelo, prima di contrapporsi alla natura cercando di controllarla perseguì la via della comprensione e della armonizzazione con le sue forze, prima di inoltrarsi inesorabilmente lungo i viali del dominio l’uomo percorse con successo la via della condivisione.
Per farcene un idea ci basti pensare alla struttura sociale degli Indios delle tribù Amazzoniche o alla civiltà Minoica di Creta che prosperò per quattro millenni senza conoscere la guerra.
Lo sciamano e lo psicoterapeuta
Nell’era della condivisione, alla salute dell’uomo arcaico, profondamente radicato nel suo gruppo sociale ed immerso nelle forze della natura delle quali si sentiva parte, provvedeva la figura dello sciamano. Ad esso veniva delegato il compito di preservare o ricostituire l’armonia del singolo col suo gruppo e l’armonia della tribù con l’ordine cosmico. Lo sciamano era pertanto sacerdote e stregone, medico e psicoterapeuta.
Nell’era del dominio e del controllo la figura dello sciamano è andata via via differenziandosi e le sue diverse funzioni hanno trovato interpreti specifici.
Il sacerdote ha preso ad occuparsi dello spirito, il medico del corpo, e, nell’ultimo secolo, lo psicologo della mente.
L’uomo separato ha delegato figure separate ad occuparsi di funzioni separate.