Pubblichiamo l’introduzione del nuovo libro di Andrea Staid, autore e redattore di Matrika: “La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire” (add editore). Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.
“Ho cominciato a riflettere sul significato della parola “casa” negli ultimi dieci anni, anni in cui ho avuto la fortuna di viaggiare e di osservare da vicino il Sudest asiatico, e più in generale l’Asia, dalla Thailandia fino al Laos, visitando Myanmar, Vietnam, Cambogia, Cina, India, Nepal, Mongolia. In tutti questi luoghi ho incontrato una cultura del costruire e dell’abitare che innesca processi di autogestione territoriale. Mi trovavo in Nepal pochi mesi dopo il terribile terre- moto del 2015 e ho visto che in molti non hanno atteso l’arrivo dei permessi governativi per cominciare a ricostruire le proprie abitazioni; le zone rosse che delimitavano le aree accessibili da quelle vietate non venivano rispettate. In questi contesti erano e sono tuttora evidenti i segni dell’auto- costruzione e dell’assenza di delega del “potere” di abitare. Camminando per Kathmandu il mio stupore crebbe ancora: nulla era stato realmente sigillato. Persino la famosa Dubar Square, patrimonio dell’Unesco, era animata da centina- ia di cittadini; non attraversata ma proprio vissuta. Vi fiorivano commerci, i bambini giocavano, nascevano scuole a cielo aperto.
Viaggiando in Asia non solo mi hanno colpito l’autocostr zione e l’assenza di delega, ma ho notato un altro dato molto importante: il valore e il significato che si dà alla propria casa. Qui l’abitazione non è quasi mai un’unità mononucleare, ma è legata a una famiglia allargata. Sebbene esistano molte declinazioni e differenze tra i vari Paesi che ho visitato, una caratteristica si può dire comune: la casa è sempre parte della famiglia e la famiglia attraversa la casa. Friedensreich Hundertwasser, artista e architetto di origini austriache, affermava che l’uomo possiede tre pelli: la propria, gli abiti e la dimora. Tutte e tre devono rinnovarsi, crescere e mutare. Se la terza pelle, ovvero la casa, non cresce e non si modifica con le altre, si irrigidisce e muore, come la cute secca. La visita delle montagne di Sapa, in Vietnam, e delle alture di Chiang Rai, in Thailandia mi ha permesso di entrare in contatto diretto con le comunità indigene Dzao e Hmong, esperienza che mi ha fatto molto riflettere. Come antropologo l’esperienza sul campo o, meglio, l’etnografia è alla base del mio modo di lavorare perché è in quel momento che cerco di rendere familiare ciò che non lo è, e inusuale ciò che per me è consueto, e in quel contesto, per farlo, mi sono presentato ai membri delle comunità indigene con alcune fotografie della mia casa di allora. Avevo fotografato il palazzo nel quale abitavo, nel quartiere Barona di Milano, ripreso dall’alto al basso, per dare l’idea della verticalità dei suoi tredici piani. Nelle fotografie si vedevano il giardino condominiale, la porta blindata e una telecamera di sorveglianza a 360° che il comune aveva installato all’inizio della via. Per un’etnografia che sia davvero partecipativa, prima di fare qualsiasi domanda al proprio interlocutore è necessario raccontarsi, spiegare chi si è, cosa si fa e come si vive, e questo per porre le basi di uno scambio reale e cominciare una pratica di indagine non egemonica.
Negli ultimi anni di ricerca etnografica, svolta nei più vari contesti, ho sondato le frontiere di un’importante distinzione che separa l’intervista dalla conversazione; da un lato, il rapporto tra intervistato e intervistatore presenta sin dall’inizio una struttura asimmetrica, perché i ruoli dei due interlocutori sono definiti in modo più o meno rigido e senza possibilità di scambio delle parti. Al termine dell’intervista io torno a casa, nel mio Paese, vado al parco con il cane o a cena con gli amici, mentre l’intervistato rimane nel suo contesto sociale, culturale e di classe. Sarebbe ingenuo credere di potermi posizionare nello stesso habitus dell’intervistato. Anche il mio ruolo all’interno dell’interazione spesso differisce da quello del mio interlocutore: sono io quello che la maggior parte delle volte fa le domande, mentre lei o lui ha l’incarico di trovare delle risposte. Tuttavia, sia pure nelle contraddizioni della ricerca, il metodo qualitativo attribuisce all’intervistatore un ruolo partecipativo, percettivo ed ermeneutico-interpretativo che è assente nella ricerca quantitativa.
Sul campo, durante i miei viaggi di osservazione etnografica, la prima cosa che cerco di fare è creare un clima di fiducia e di ascolto attivo. Chiarisco gli intenti della ricerca con i miei interlocutori e non fingo di essere ciò che non sono. Per questo tra le comunità indigene Dzao, in un villaggio di palafitte situato a duemila metri di altitudine totalmente autocostruito, ho iniziato a rapportarmi con gli abitanti del villaggio descrivendo la mia casa attraverso le immagini. Ho cominciato mostrando la foto della porta blindata dell’appartamento e a quel punto il nucleo familiare con cui stavo lavorando ha osservato l’immagine e mi ha chiesto che cosa fosse. Ho detto che si trattava della porta di casa e mi hanno risposto che anche loro avevano una porta, di legno, che si apre e si chiude senza difficoltà; non capivano perché quella fosse così grande e spessa. Ho spiegato allora che, dove abito io, quando siamo in casa, andiamo a dormire o usciamo chiudiamo quella porta a chiave. «E non avete paura?», mi hanno chiesto a quel punto.
Domanda interessante, che ribalta il nostro concetto di sicurezza, così come il modo in cui ci rapportiamo con i luoghi che abitiamo e con le persone che vivono con noi. A un osservatore distante sembra che ci sentiamo sicuri soltanto rinchiusi, forse perché non ci riconosciamo nella comunità in cui viviamo e abbiamo paura di quello che si colloca fuori dal nostro nucleo familiare, che è spesso mononucleare ed eteronormato. In una società in cui invece il soggetto si riconosce nella sua comunità (pur con tutti i problemi relativi al controllo che ciò comporta), l’apertura della porta di casa è qualcosa che fa sentire sicuri. Se si sta male, qualcuno può entrare ad aiutare, se si ha bisogno di qualcosa si può accedere e chiedere. Il nostro concetto di sicurezza, così come quello di casa, sono relativi ed esprimono una precisa organizzazione biopolitica dell’esistente. Come seconda immagine ho mostrato agli abitanti del villaggio le foto del giardino condominiale mantenuto in condizioni perfette: pulito, con l’erba del prato ben rasata e la chioma degli alberi modellata secondo precise forme geometriche. Quando mi hanno chiesto cosa fosse, ho spiegato che si trattava di un giardino condominiale: il bene comune e collettivo del palazzo in cui abitavo. Ho aggiunto che gli appartamenti sono privati, quindi pagati e considerati come merce, cosa abbastanza strana per chi non vive in una società basata sulla proprietà privata, mentre il giardino era uno spazio col- lettivo. L’hanno trovata una cosa bella e mi hanno domandato come mai non ci fosse niente: nessun tavolo, nessuna sedia, nessuno scambio di opinioni o di oggetti tra le persone. Ho risposto che per via delle regole legate al decoro, ai condomini non è consentito fare molto all’interno di quello spazio. Anche questa per loro era una cosa inconcepibile, il fatto che esistesse una zona comune in cui non si potesse fare nulla di collettivo. Nei giardini condominiali non si possono lasciare le biciclette, non si può mangiare tutti insieme né giocare a pallone, perché non sarebbe decoroso.
Mentre raccontavo queste cose, i miei interlocutori mi guardavano come se fossi un folle, e in effetti è piuttosto assurdo che il nostro modo di vivere lo spazio comune coincida con il vietare qualsiasi relazione del collettivo e che tutto quello che abbiamo fatto sia stato creare norme che ci impediscono di viverne il potenziale relazionale e sociale. Poi, ho mostrato loro le fotografie della telecamera a 360°. In Antropologia interpretativa, Clifford Geertz parla di «concetti vicini all’esperienza» e «concetti distanti dall’esperienza», riprendendo una distinzione formulata a suo tempo da Heinz Kohut.
Un concetto vicino all’esperienza è un’idea di cui ci si serve in modo spontaneo, nell’immediatezza e praticità del discorso comune, senza riflettere sul fatto che questo includa significati e che debba servire per raggiungere obiettivi scientifici, pratici o filosofici. Vedendo una telecamera a 360° tutti noi capiamo che cosa sia e a che cosa serva, ma spiegarlo ai nativi dei monti di Sapa è complesso e questo perché si tratta di un concetto lontano dalla loro esperienza. La mia provocazione era quindi deliberata: osservando la fotografia non avrebbero mai potuto dire che cosa fosse o che cosa rappresentasse quell’oggetto nella mia società. Quando ho detto loro che si trattava di una telecamera, hanno ammesso di conoscere l’oggetto, ma non comprendevano perché qualcuno l’avesse collocato così in alto e all’inizio di una strada. Allora ho spiegato che quella telecamera, come la porta blindata, era lì per la nostra sicurezza: se fosse accaduto un crimine, la registrazione ci avrebbe permesso, forse, di risalire a chi l’aveva commesso e di punire il colpevole. Per noi questo è del tutto normale, ma in una società in cui i soggetti si riconoscono nella comunità, la sicurezza non si basa sulla registrazione del crimine, ma sul vivere l’ambiente in modo tale che i crimini non siano commessi.
Questo esempio non vuole fomentare il cosiddetto “mito del buon selvaggio”; tali comunità non sono affatto perfette e al loro interno ci sono molte contraddizioni e problematiche. Moreno Paulon, l’antropologo che ha lavorato proprio negli stessi monti, ha scritto di come in quelle comunità e in quei villaggi ci siano famiglie che vendono le figlie minorenni a ricchi cinesi tramite il mercato del traffico di esseri umani.
Porta aperta o chiusa, in questo caso il criminale è già dentro casa, è un membro della comunità e addirittura della famiglia. Sono certo che non esistano società perfette, ma non per questo dobbiamo smettere di capire il loro funzionamento e confrontarlo con il nostro per imparare nuove idee di socialità e costruire nuovi modi ibridi e aperti di abitare. Ho vissuto esperienze simili anche durante una ricerca più vicina a “casa nostra”. Nel campo rom di Milano, il Villaggio delle rose, così come nel villaggio sinti di Pavia, parlando con gli abitanti ho percepito la relatività della parola “casa”, del concetto di chiusura e di quello di sicurezza. Per restare in Italia, anche quando, dopo il terremoto del 2012, ho intervistato gli autocostruttori della bassa emiliana, le risposte sul significato della casa erano più in linea con una concezione rurale dello spazio che con quella cittadina, dove sempre di più la casa è diventata una sorta di fortezza, una chiusura al mondo. In città la vita si è individualizzata, ripiegandosi nelle case a scapito della socialità, del collettivo, cosa inspiegabile per un indigeno dei monti vietnamiti, per un abitante del Villaggio delle rose di Milano o per un autocostruttore della bassa emiliana.
In Europa esistono molte esperienze di abitare “alternativo” e “marginale”, attraversandole ho capito che il concetto di casa, il modo di concepire lo spazio abitato, è relativo al suo contesto di produzione culturale. Anche tra gli occupanti di case a Milano o a Barcellona, la casa assume un significato particolare: l’esperienza dell’autogestione non si limita a occupare luoghi abbandonati, ma entra nel vivo della creazione di legami di mutuo appoggio e solidarietà in cui la casa si trasforma in un ripensamento del modo di vivere la città contemporanea, sempre più atomizzata e individualista.
Gli abitanti dei villaggi, degli accampamenti, delle case occupate, delle comuni non solo condividono ma fanno il loro abitare, sia nel senso teorico sia in quello pratico del termine. Ci sono persone che considerano l’abitare come un processo mai concluso e per loro l’abitare non è un corollario, ma sostanza della libertà quotidiana che investe la dimensione antropologica dell’uomo. Per la maggior parte degli abitanti della città informale, degli ecovillaggi, delle case occupate o per i travellers, la casa non è quasi mai separata dall’ambiente che la circonda; al contrario lo modella, lo ricrea e vive in sintonia con esso. Come si può intuire nell’incontro tra mondi geograficamente vicini eppure distanti, abitare è un concetto che non riguarda solo la dimensione domestica, ma che ha a che fare con le relazioni che siamo in grado di costruire con le persone nella nostra comunità. È un concetto che si definisce passando attraverso le ragnatele di significati che ogni giorno intessiamo con i nostri vicini. Comprendere come abitiamo significa dunque prendere in considerazione sia la sfera del quotidiano sia il reciproco interagire fra l’organizzazione spaziale e l’azione umana. Sono convinto che il modo e il luogo in cui la gente abita definiscano un ambito nel quale si può costruire la propria identità e cultura. L’abitare rappresenta l’azione propria dell’uomo che riflette e non si assoggetta semplicemente alla vita; l’essere umano “abita” la casa quando non si limita a subire l’esistenza e le fatiche del vivere. In questo modo “abitare” assume il senso del prendersi cura, di sé e degli altri.”
di Andrea Staid