A cura di Maurizio e Zaya Benazzo – SAND (Science And Non Duality)

Peter Levine ha sviluppato il modello neurobiologico per l’elaborazione dei traumi denominato Somatic Experiencing. Ha conseguito un dottorato in fisica medica e biologica presso l’Università della California a Berkeley e un dottorato in psicologia presso l’Università Internazionale, ha ricevuto premi alla carriera ed è autore di numerosi libri, tra cui “Waking the Tiger”, che è stato stampato in 33 paesi e ha venduto oltre un milione di copie.

Zaya Benazzo – “La conversazione di oggi riguarderà il nuovo libro di Peter, “An Autobiography of Trauma: A Healing Journey”. Peter, ho iniziato il tuo libro negli ultimi due giorni e […] non sono riuscita a smettere di leggerlo.
Mi ha commossa così profondamente. Mi ha toccato il cuore […]. Il tuo libro è come una ricapitolazione della tua vita. Trasmette la tua saggezza e le tue realizzazioni di guarigione ed evoca insieme il mistero della vita, fa riflettere su questo profondo mistero in cui siamo immersi. Ha nutrito profondamente la mia anima, grazie per averlo scritto! E questa è la mia prima domanda: che cosa ti ha spinto a scrivere il libro? Deve essere stato un viaggio a contatto con la tua vulnerabilità, prendere la decisione di condividere tutto questo pubblicamente. La tua infanzia è stata pesante e piena di traumi profondi… in che modo quelle prime esperienze hanno formato chi sei e cosa stai dando al mondo?”

Peter Levine:- “[Ci sono] molte strade possibili qui, ma penso di avere un’idea di dove cominciare. Sai, quando ho scritto questo testo, non voleva essere un libro. Alla mia età, anche se sono abbastanza sano e appassionato, il numero di anni che mi restano nella vita è molto inferiore al numero di anni che ho già avuto finora. E ho pensato che fosse giunto il momento di leggere la mia vita quasi come un diario, di scavare davvero in essa, di osservare la sua traiettoria, il modo in cui ho affrontato le esperienze e sono stato in grado di trovare narrazioni coerenti per intrecciarle insieme. E così, era pensato solo per me stesso, per la mia guarigione. Ho condiviso parte di questo con una mia cara amica.

E lei dopo averlo letto mi disse: “Peter, devi pubblicarlo, devi scriverlo e pubblicarlo come un libro”. E le ho detto: “Assolutamente no, è troppo vulnerabile, troppo personale. Voglio dire, è anche intellettuale, accademico, scientifico, in un certo senso, ma è profondamente emotivo, profondamente sentito”. E lei mi ha risposto: “Penso davvero che questo testo potrebbe aiutare altre persone se lo scrivessi come un libro”. E così mi sono sentito davvero in conflitto su questo.

Sai, c’era la sua idea che lo pubblicassi, e poi c’era la mia paura che ciò accadesse. E a volte, quando non so dove andare, un sogno va e viene, e mi guida […]. In questo modo il mio inconscio inizia a filtrare e a darmi informazioni importanti. Il sogno era il seguente: sono in piedi di fronte a un grande campo e tengo tra le mani una risma di carta… E’ una specie di manoscritto o qualcosa scritto sopra. Guardo a sinistra, guardo a destra. E poi, senza pensare, in questo momento di indecisione, una brezza, un vento arriva da dietro e prende tutti questi fogli, spargendoli nel prato.

E così quando mi sono svegliato, sapevo quale era la risposta: mi sarebbe piaciuto che gli altri lo leggessero, la mia speranza era che avrebbe aiutato la loro guarigione. Penso davvero che questo aiuterebbe le persone con i propri percorsi, le proprie guarigioni e forse anche a scrivere le proprie storie. Perché credo profondamente che tutti noi abbiamo storie importanti da raccontare, tanto a noi stessi quanto alle persone che sanno essere testimoni gentili. […] Sapevo che avrei dovuto pubblicarlo. E anche se avevo ancora qualche ambivalenza e qualche trepidazione, ero sulla buona strada. Infine, quando il libro due giorni fa è stato pubblicato, ho capito con certezza che indietro non potevo tornare” […].

Zaya Benazzo – “Leggere il libro è stato come sfogliare strati su strati della tua vita nel tuo viaggio di guarigione dal trauma. Sono curiosa: è così per tutti? Con il tempo vediamo sempre più strati? Perché ti ci sono voluti 30 o 40 anni per toccare alcuni dei traumi più profondi? […] E perché ci vuole così tanto tempo per toccare ferite così profonde, far emergere quei ricordi? Perché li reprimiamo così profondamente?”

Peter Levine – “Questa è una domanda importante. Sai, quando, quando ho iniziato a scrivere questo, e poi ho realizzato che sarebbe uscito un libro, non volevo esporre le persone ad alcune delle violenze accadute nella mia infanzia. In Somatic Experiencing, non andiamo mai al centro del trauma, ma lavoriamo attorno alla periferia in molti modi. E questo è uno dei principi di base, è molto diverso dall’idea di far rivivere alle persone i loro traumi più e più volte, dove rivivi semplicemente il peggio del trauma, e ancora e ancora. Penso che questo non porti davvero da nessuna parte. E così stavo sperimentando alcuni sintomi disturbanti, alcune sensazioni e immagini difficili in quel periodo nella mia mente. Quindi quello che ho fatto è
stato che ho capito essere giunto il momento di prendere un po’ della mia medicina, di assaggiare per me il modello che ho ideato. Così ho chiesto a una delle mie studentesse, una donna meravigliosa, di sedersi con me e di accompagnarmi e vedere dove sarei andato.

E la prima cosa che è riemersa, nell’esperienza somatica (non andiamo direttamente al trauma) è stato un ricordo di quando avevo quattro o cinque anni. Era il mio compleanno e nel cuore della notte i miei genitori devono essere entrati nella mia stanza posizionando ibinari per un modellino di treno sotto il mio letto, fuori nella stanza e poi di nuovo sotto il letto. Quando mi sono svegliato il treno girava sui binari! Sono letteralmente saltato giù dal letto, sono andato al trasformatore, ho controllato la velocità, ho fatto suonare il clacson. E in quel momento il corpo era così eccitato, così vivo! L’opposto di ciò che accade nel trauma, il che è importante, perché abbiamo bisogno di fare nuove esperienze che contraddicano quelle della sopraffazione e dell’impotenza, prima di affrontare il trauma. E quindi è lì che, in un certo senso, ho iniziato. Ma poi sono iniziate ad emergere altre immagini inquietanti. E mentre proseguivamo, e lei mi stava aiutando guidandomi, ha notato un leggerissimo movimento dei miei piedi. Ha attirato la mia attenzione su questo e ho potuto sentire come se stessero correndo.
Poi è venuta fuori un’altra immagine positiva. C’era un parco dall’altra parte della strada dove vivevo. Un parco incantevole. Quando tornavo da scuola, mangiavo i miei biscotti al latte, i biscotti della Pepperidge Farm, poi correvo attraverso la strada, scavalcavo il recinto e scendevo tra i cespugli. Sotto c’era una pista da corsa. E allora correvo lì e sentivo le mie gambe muoversi. Questo è importante perché la sensazione che provavo in quel momento della mia vita era che le mie gambe mi venissero strappate da sotto, a causa della minaccia che avevamo dalla mafia da parte di un uomo di nome Johnny Dubois, un assassino, era uno dei personaggi dei Goodfellows. Era uno dei più violenti, e il procuratore distrettuale stava cercando di convincere mio padre a testimoniare contro di lui. Questa è una lunga storia…

Mio padre era completamente innocente. Ma poi la mafia fece capire a mio padre che se avesse testimoniato avrebbe trovato la sua famiglia a faccia in giù nell’East River. Quindi era importante anche poter correre, poter sentire un po’ di potenza nelle gambe. In quel momento è emersa un’altra immagine. Era un momento diverso in cui stavo scavalcando il recinto. Ho notato che a sinistra ce n’erano un sacco di uomini, che sembravano appartenere a una banda… fumavano sigarette e avevano questi cappelli da motociclista come quello che indossava Marlon Brando. Mi sono sentito rizzare i peli della schiena, ho sentito i brividi. In qualche modo sapevo che qualcosa non andava. Così mi sono diretto tra i cespugli e sono andato più veloce che potevo. Ma mi hanno raggiunto, mi hanno afferrato e mi hanno gettato a terra. E non voglio entrare nei dettagli ma sono stato violentato brutalmente. E il motivo era che volevano che lo raccontassi ai miei genitori, in modo che sapessero quanto fosse grave la minaccia. Ma non gliel’ho mai detto. In un certo senso non me lo sono mai detto, lo mettevo nei recessi della mia mente. È stato solo molti, molti decenni dopo, lasciandomi guidare da una mia studente, che questo è emerso e sono stato in grado di elaborarlo.

Penso che questo accada in qualche modo alla maggior parte di noi. Qualcuno dice: “Il tuo trauma è stato peggiore del mio”, o “Il mio trauma è stato peggiore del tuo”, ma una delle cose che ho imparato lavorando con le persone per 50 anni è che non esiste nessuno che non abbia le sue ferite. […] Tutti abbiamo le nostre ferite, tutti abbiamo le nostre storie da raccontare. E nel libro incoraggio davvero le persone a scrivere le proprie storie, anche se è solo per se stessi. Può essere un’esperienza profonda, un’importante esperienza positiva.

Questo episodio della mia infanzia è un esempio di dissociazione. È qualcosa che metti via, ed è murato, è in uno scompartimento quindi non devi ricordartelo. Ma ogni giorno, quando andavo a scuola, il mio corpo lo ricordava. Quando camminavo per strada, il mio respiro si restringeva, il mio battito cardiaco aumentava, stavo attento a non calpestare i bordi dei marciapiedi, rituale molto tipico che le persone fanno per allontanare i sentimenti difficili. Da quel momento qualcosa è davvero cambiato nella mia vita. Avevo perso una buona parte della mia giocosità e vitalità, anche se ho continuato ad andare avanti. E penso che una delle cose che mi ha davvero aiutato sia stata la gratitudine nei confronti dei miei genitori, che sono stati per molti versi fonte di traumi significativi ma mi hanno anche regalato [molte esperienze positive]: quella prima immagine dei binari del trenino è rimasta con me per sempre, non la dimenticherò mai. Mentre te lo racconto in questo momento, sento il trenino che gira sui binari. E ricordo di aver saputo in quel momento che importavo a qualcuno, che ero amato. E questo mi è rimasto.

Diverse ricerche dimostrano che se una persona, indipendentemente dal grado di trauma che ha subito, ha avuto almeno un’esperienza in cui ha sentito di essere accudita e amata, allora andrà tutto bene, sarà in grado di poter superare il trauma.
E per me è stato sicuramente così. In quel momento, sapevo che si prendevano cura di me, che ero amato. E anche se sono accadute queste cose orribili, ciò mi ha davvero dato una base, un radicamento interiore.”

Zaya Benazzo – “Quindi, riflettendo su questa specifica situazione traumatica, che impatto ha avuto su di te più avanti nella vita? E sulle tue relazioni? Molti di noi riconosciamo i nostri traumi attraverso le nostre relazioni intime. E cosa succede a quelli di noi che potrebbero non ricordare chiaramente quegli incidenti?”

Peter Levine – “In Somatic Experiencing non aiutiamo le persone a ricordare nulla. Serve solo a far uscire il corpo dallo shock, dal congelamento e riportarlo ad un livello più basso di attivazione. Possono affiorare immagini, ricordi, ma non è questo l’obiettivo. E questa è un’altra differenza di Somatic Experiencing rispetto a cose come la terapia dell’esposizione prolungata, dove la persona rivive i traumi più e più volte, l’idea di ‘prosciugare la palude’ (Freud). Penso che invece in molti casi si prosciughi semplicemente la nostra energia vitale.”

Zaya Benazzo – “Spesso il nostro trauma si rivela attraverso le nostre relazioni intime.”

Peter Levine – “Sì, sì. Per molto tempo ho avuto una vera lotta in diversi tipi di relazioni, in particolare in quelle intime. Ho vissuto diverse proiezioni, perché se vedo il mondo come pericoloso, allora non è possibile essere intimo con qualcun altro. E io sono stato così fortunato.
Nell’autobiografia scrivo anche del mio trauma sessuale e del mio risveglio sessuale, e
dell’apprezzamento che ho per le persone, per le donne (sono eterosessuale) che sono
state nella mia vita, e che sono statE così gentili, generose e disponibili, e mi hanno davvero permesso di aprirmi di nuovo – il mio cuore e i miei genitali insieme – perché erano stati quasi irrevocabilmente disconnessi. E sai, qualcuno ha scritto che non puoi decidere chi amare, ma puoi decidere come amare. Se sei toccato dall’amore, allora sei chiamato da Eros, dalla Dea, a stare con, a stare con l’altro e ad aprirti all’altro per sentire semplicemente le sensazioni e i sentimenti. Sapete, una delle recensioni del libro era di Diana Richardson, e non so SE voi la conoscete, ma è una delle principali maestre tantriche. Vive in Svizzera. È una donna straordinaria. Oh, eccola qui: “A tratti questo libro è straziante, doloroso e personale. È anche scientifico e formativo […]”.

La prima volta che ho parlato in pubblico del mio libro è stato alla conferenza sull’evoluzione della psicoterapia a New York, alla quale di solito partecipano diverse migliaia di persone, più o meno dai cinquemila agli ottomila partecipanti. E così stavo parlando a questo pubblico. Ho guardato le persone ed ero assolutamente terrorizzato, davvero terrorizzato.
Ma poi mi sono ricordato di alcune cose che le persone, i miei colleghi, i miei amici e altri hanno scritto sul libro. E li sentivo al mio fianco e alle mie spalle. Ancora una volta, questo mi ha permesso di correre questo rischio, di trovare il coraggio di parlarne in pubblico. E ora, mentre lo faccio qui, sì, provo una certa apprensione. Ma non molta ansia, provo eccitazione, sento che la mia speranza è che questo libro possa davvero aiutare gli altri nella loro guarigione, siano essi terapisti o semplicemente esseri umani come il resto di noi.
E sì, sono emozionato. Sono davvero entusiasta di aiutare in qualsiasi modo. Voglio dire, l’idea di poter aiutare le persone mentre sogno mi attrae molto. […]”

Zaya Benazzo – “Uno dei regali per me è stato leggere del tuo rapporto con tua madre, perché ho avuto anch’io un rapporto molto impegnativo con la mia quando ero giovane. Ciò che ho imparato leggendo il tuo libro è che i genitori possono trasmetterci la resilienza e il trauma allo stesso tempo.

Peter Levine – “Beh, sai, Zaya, speravo che il libro aiutasse davvero altre persone a riflettere sulle proprie esperienze, sui propri genitori, non importa quanto buoni o cattivi. Non sono o buoni o cattivi: sono buoni e cattivi, cattivi e buoni. E penso che parte del crescere nell’individuazione sia quando impariamo ad accettarli così come sono. E come parte di ciò, accettarci come siamo, sì. La realtà diventa meno o tutta bianca o tutta nera, diventa più da ascoltare… diventa più coerente, più multidimensionale, più colorata.

La cosa più interessante che i miei genitori mi hanno dato è stata la curiosità. La spinta alla curiosità. E ancora una volta, questo mi ha aiutato nel mio passato. Quindi sono felice di sentire che ti ha toccata, perché penso che quando riflettiamo sui nostri genitori, più di qualcuno sia portato a dire “Oh, i miei genitori erano perfetti” oppure “I miei genitori erano orribili”. Essere adulti è riconoscere i doni che ci sono stati dati e anche le lotte che abbiamo dovuto affrontare. La parola “resilienza” che usi penso che sia la parola esatta. Perché quando affrontiamo il nostro trauma con sempre maggiore resilienza, allora siamo in grado di essere molto più a nostro agio con alcune di queste cose che ci sono successe, ma che abbiamo anche in gran parte guarito. La guarigione a volte sembra che avvenga tutta in una volta. Ma altre volte, è l’inizio di un arco. Come disse una volta il mio amico Ian la distanza più breve tra due punti non è necessariamente una linea retta, ma curva: torna e curva ancora. E quel viaggio è uno di quei percorsi che collegano i diversi eventi e le diverse esperienze che ci sono nella nostra vita. ” […]

Zaia Benazzo – “Nel tuo libro scrivi di aver lavorato con le comunità indigene in giro per il mondo e di avere imparato da loro. E quindi la domanda è: cosa possono imparare gli approcci psicoterapeutici occidentali dalle pratiche di guarigione indigene? C’è un modo indigeno di considerare le ferite?”

Peter Levine – “Sì. Bella domanda. Molto. Risposta breve: molto, possiamo imparare molto.

Voglio iniziare con questo. Tendiamo a vedere noi stessi come individui, per esempio quando facciamo terapia individuale. Questo modello, in un certo senso, è stato estremamente produttivo. Voglio dire, sviluppare computer, iPhone e iPod o come li chiamano, si rifà a un modello molto individualista e competitivo. Da questo sono derivate grandi cose, ma abbiamo anche perso così tanto. Quando ho iniziato a lavorare con alcuni di questi popoli indigeni, era chiaro che essi non vedevano le cose in questo modo.

Quando incontrai il capo di una tribù piuttosto remota del Brasile (Ci sono volute circa 20 ore per arrivarci), prima di tutto si accorse che ero completamente sudato sotto il sole di mezzogiorno. Così mise un piccolo tubo in una fessura tra le rocce dove c’era una sorgente d’acqua, quindi mi prese e mi fece fare una bella doccia. Mi portò semplicemente lì. Penso che in un certo senso lui mi stesse facendo lavare via alcuni dei miei pensieri. E poi mi portò dietro la casa, su una stuoia di bambù sotto un albero di mango. Ci sedemmo, lui aveva dei flauti di legno e iniziò a suonare il flauto. Gli chiesi se potevo suonare uno dei flauti con lui e lui disse: “Ecco perché sono qui”.

Abbiamo suonato insieme i nostri flauti e siamo entrati nel ritmo. Più tardi la domanda che mi fai tu ora ebbe in parte una risposta. C’è un termine nello sciamanesimo brasiliano sudamericano, “susto” che si traduce come paralisi da paura. Questa è una delle due cose che gli sciamani guariscono, ad esempio quando viene lanciata una maledizione su qualcuno, quindi gli ho chiesto. Lui mi rispose che conosceva la parola “trauma” perché sua figlia, la prima persona della tribù ad andare al college, gliene aveva parlato, ma mi disse: “Questo non coglie il punto. Il trauma non è ciò che accade all’individuo, ma accade all’intero gruppo, all’intera tribù e deve essere guarito nell’intera tribù”.

Durante quel periodo, una delle donne del villaggio aveva il diabete, quindi la sua gravidanza gemellare era ad alto rischio. Andò all’ospedale che era circa a quattro ore dall’accampamento. Entrambi i gemelli nacquero morti e lei entrò in una profonda depressione. Le somministrarono diversi farmaci inutilmente, così il personale decise che le avrebbero fatto un elettroshock. Ma i membri del villaggio non diedero l’autorizzazione, anzi, costruirono una scala, andarono nel cuore della notte in quell’ospedale, appoggiarono la scala alla sua finestra, la presero e la riportarono dalla stanza alla tribù. E lei era di nuovo lì e si vedeva semplicemente che era in uno stato di disperazione. Poi fecero un loro rituale. Non ci si aspettava niente da lei, sedeva semplicemente fuori. Fecero diversi rituali. E proprio in questi momenti, devo dirti, nel giro di pochi minuti, ti trovi in ​​uno stato di coscienza diverso, in uno stato di coscienza alterato. E così, in uno di questi incontri, qualcuno nel gruppo iniziò a piangere e altre persone iniziarono a piangere. E poi la donna cominciò a singhiozzare e singhiozzare per il dolore di aver perso i suoi bambini. E infine entrò nel gruppo. L’idea è che non guarisce la persona. Si tratta di un compito che riguarda l’intero gruppo, l’intera tribù.

Ho seguito un po’ il lavoro di un’antropologa di nome Marcela Eliot che ha scritto di questa tribù pigmea. Quando qualcuno subiva qualche perdita, si riunivano nel gruppo della tribù, cominciavano tutti a piangere e singhiozzare e questo andava avanti per tutta la notte. E poi la mattina dopo, andavano nella foresta e ballavano, con gioia ed estasi. Quindi, ancora una volta, è davvero importante per ricomporre la nostra visione scissa di noi stessi, sentire di far parte di una comunità più grande. E penso che questa comunità includa anche i nostri antenati, sconfini lo spazio temporale, vada oltre l’umano e includa i sogni. Tutto ciò è molto più ampio e complesso di quanto possiamo immaginare e scrivere.

Ed è così bello… Grazie!”

Traduzione di Alice Di Lauro

 

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