Un’era di incredibili cambiamenti si sta dispiegando sul pianeta Terra: possiamo chiuderci in noi stesse, nelle vecchie culture e paradigmi che ci hanno portato fino a qui, o essere disponibili ad ascoltare donne come Laura Calderon de la Barca, che hanno dedicato parte della loro vita con coraggio e compassione ad esplorare il senso di tanto dolore che ci arriva dal passato. Laura è tra l’altro, una psicoterapeuta di Città del Messico con un Master in Studi sull’Arte del Linguaggio all’Università di Lancaster UK e un dottorato sulle Teorie del Caos e della Complessità applicate alla guarigione collettiva ottenuto all’Università di Sidney Australia. Collabora con il Pocket Project, organizzazione no profit che si dedica allo sviluppo di una cultura che sia capace di comprendere e prendersi cura delle implicazioni del trauma sulla nostra vita personale, sociale ed ecologica.

Ti andrebbe di raccontarci qualcosa di te, rispetto al tuo percorso personale e professionale, ma soprattutto rispetto alle tue origini indigene? Come tutto questo ha interessato la tua vita e il tuo interesse per il trauma collettivo?

L – Tutti questi aspetti della mia esperienza di vita sono strettamente legati tra di loro. A scuola quando ero giovane ho subito molte esperienze di bullismo e discriminazione per via del mio aspetto fisico, per il fatto di avere la pelle più scura delle altre persone e per le mie origini indigene. Questa esperienza è stata incredibilmente dolorosa per me ed anche se la mia vita non era a rischio, il mio corpo ha avuto questa reazione incredibilmente intensa. Ricordo un episodio accaduto quando avevo nove anni, stavo camminando con la mia borsa in procinto di entrare a scuola, quando un ragazzo bianco vicino al cancello d’ingresso si avvicinò sussurrandomi all’orecchio – “Negra!” – Che effetto potente ha avuto su di me, mi allontanai con il corpo completamente contratto, sentendo vergogna ed una profonda distanza tra l’esterno in cui percepivo pericolo e non riuscivo a portare la mia attenzione o concentrarmi, e l’interno in cui sentivo qualcosa di così orribile che dovevo dissociare, uscire dal corpo. Non riuscivo a capire l’intensità di quello che provavo, infatti nonostante comprendessi che quella non fosse una minaccia di morte nei miei confronti, mi sentivo quasi peggio a pensare che ci potesse essere qualcosa di sbagliato in me.

Quando ho iniziato a studiare il trauma intergenerazionale e il trauma collettivo ho sentito sollievo perchè ho compreso il senso delle esperienze che stavo provando nel mio corpo, che si ricollegavano alle esperienze che avevano vissuto le mie antenate la cui vita era effettivamente in pericolo, e riuscivo a percepire come il fatto che fossero state trattate in maniera così brutale e minacciate di morte fosse poi diventato anche parte del mio corpo.

Io avevo bisogno di questo genere di informazioni per la mia vita e credo che molte persone che si avvicinano a questi studi lo fanno anche perchè sentono questo tipo di esperienze sul loro corpo e quindi diventa una ricerca ancora più coinvolgente per loro.

Laura Calderon de la Barca

Un’altra sfida riguarda il fatto che tutte siamo immerse nel trauma collettivo, è un pò come essere sommerse, nuotare e non riuscire ad orientarsi tra l’alto e il basso per poi, comprendendo come funziona questo importante fenomeno ed i suoi effetti nella nostra vita, lentamente riemergere. Una volta riconquistata l’aria possiamo sentire che una buona parte del nostro corpo è ancora sommerso, ma imparando ad avere a che fare con questo finalmente possiamo arrivare anche a respirare.

Nel mio percorso questo processo è stato il più grande insegnamento, poi ho anche studiato e avuto la possibilità di conoscere le esperienze di molta gente con cui ho lavorato. Tra questi citerei in particolare Robert Augustus Masters, dal quale ho appreso il metodo Integral Intuitive Psychotherapy e grazie al quale durante otto anni ho studiato e ci siamo presi cura dei miei traumi più profondi. Poi, poichè ho sentito una chiamata nei confronti del campo collettivo, ho iniziato a dedicarmi al lavoro sviluppato da Thomas Hübl.

Già nel 2004 avevo iniziato ad occuparmi di dinamiche sociali in Australia dove ho conseguito il mio Dottorato di ricerca, che è stata una delle esperienze più divertenti della mia vita ed è consistito nel creare una sessione terapeutica per la mia terra di origine, il Messico. Per fare questo avevo bisogno di qualcuno che comprendesse la mia intuizione, trovai un docente specializzato nelle teorie del caos e della complessità.

Dovevo anche trovare un luogo adatto per questa esperienza e come guidata da elementi spirituali venni a conoscenza tramite la radio di una particolare comunità indigena. Mi viene da sorridere raccontandovi questo, perchè poi in tutto il lavoro ci fu come un flusso, una serendipità. Volevo provare a fare questo perchè io stessa avevo bisogno di guarire (healing oltre alla comune traduzione qui utilizzata assume l’accezione etimologica di tornare all’interezza N.d.T.).

Scoprii che esistono ferite comunitarie in natura, in Messico c’è un ancora un forte senso di vergogna collettiva residua del trauma legato al fenomeno della conquista e della dominazione. Essa ha a che fare con il fallimento dell’azione di difesa e respingimento avvenuto nei confronti dell’invasione degli europei, rimane ancora oggi nei corpi e nella psiche di chi come me ha antenati di origine indigena. Questa ferita è arrivata fino a noi anche perchè i conquistatori europei umiliavano le persone native per sottometterle e legittimare la loro posizione nei territori occupati. Questa dinamica di sopraffazione è ancora presente ai giorni nostri in Sud America.

Sappiamo che ci sono modi di guarire da tutto questo ma implicano incontrare il dolore e talvolta questo potrebbe risultare sopraffacente. Per questo preferii non iniziare questo viaggio da sola ma piuttosto insieme ad un gruppo di psicoterapeute con le quali ci avventurammo nella prima parte di apprendimento di quello che sarebbe stato un processo molto più ampio e lungo. Sono passati dieci anni al termine del dottorato prima di incontrare Thomas Hübl e poter continuare quel percorso con un altro gruppo di persone.

Il modo in cui mi relaziono con le mie origini indigene ha influenzato molto tutto l’intero processo. Non essere cresciuta in un ambiente vissuto da native ha reso questo molto più difficile, lasciandomi a “trovare l’equilibrio per rimanere in piedi solo su una gamba, quella europea”, poichè non avevo l’altra metà indigena per sostenermi… Per questo pur non sentendo di poter parlare in nome delle genti indigene, non avendo le loro esperienze, percepisco di avere nel mio corpo una forte connessione e contatti profondi con quel mondo.

Ho realizzato questo grazie ad esperienze di danza sacra a cui ho partecipato e in cui il mio corpo si è mosso naturalmente in modi spontanei di cui non ero a conoscenza. Unirmi a questo gruppo di danza mi ha permesso di scoprire quella cultura anche attraverso i suoi rituali.

Essere invitata a danzare al centro del cerchio è stata un’esperienza molto stimolante e potente, poichè sentivo tanta vergogna nell’essere lì, per cui dovevo confrontarmi con essa, starci a contatto e danzare per condividere insieme alla comunità. La prima volta che un collega del mio ambito professionale è venuto a vedermi danzare, mi ha trovato con il copricapo e gli abiti tipici della tradizione, ricordo di aver sentito una profonda vergogna, di aver provato un forte conflitto perchè invece io volevo sentirmi orgogliosa di tutto quello. Era orrbile, ma fu così importante riuscire ad attraversare questo. Sentivo fuoco in quel conflitto, questo mi aiutò a continuare a danzare, non permettere alla vergogna di fermarmi in quello che avrei avuto bisogno di fare da lì in poi, nella mia vita. Questo ha a che fare con una guarigione molto profonda che è avvenuta grazie alla mia connessione con la spiritualità indigena.

Ivan – Innanzi tutto sento di volerti dire grazie e sono molto toccato dalla tua condivisione Laura. Molte domande affiorano nella mente mentre ti ascolto e sono interessato a questa dimensione ancestrale, all’importanza del rituale. Puoi dirci qualcosa rispetto a come una comunità si può incontrare e riconnettersi attraverso questo? 

Laura – I rituali credo abbiano un ruolo molto importante da poter svolgere. Penso che questa domanda possa avere diverse tipologie di risposta in base ai soggetti e alla comunità a cui si fa riferimento. Se prendiamo in considerazione le esperienze native dal Sud America, l’Africa o l’Australia che avevano già delle loro specifiche tradizioni con rituali e cerimonie che fanno parte del quotidiano ancora oggi, potrebbe essere diverso dal parlare di ambienti europei in cui tali tradizioni ancestrali non sono più vive.

Nel voler dare spazio a queste situazioni bisogna prendere in considerazione i semi culturali già presenti e se sono coinvolte solo persone dal background europeo. Altro aspetto importante  può essere considerare in quale stadio del processo di guarigione dai traumi trasmessi attraverso le generazioni sono i soggetti e le comunità. Per esempio spesso la prima generazione potrebbe essere incapace perfino di parlare del trauma, mentre la seconda o la terza potrebbero avere più distacco, più spazio per iniziare ad osservare e sentire ciò che è successo, lasciando così quell’energia muoversi nei loro corpi. Questo non è ciò che avviene sempre necessariamente, ad esempio in Colombia alcuni individui riescono a parlare del conflitto armato in corso nonostante siano tra le prime generazioni di vittime dello stesso, o riescono a far arrivare le loro storie nel mondo. Questo è un enorme avanzamento nella nostra capacità di guarire.

Per me prima di iniziare a definire qualsiasi cosa è importante ascoltare sia le parole, sia ciò che non viene detto verbalmente dalle persone. E rispettare i tempi, comprendere che la guarigione potrebbe avere tempi più lunghi di quelli che immaginiamo, comprendendo il fatto che l’intensità del terrore, del dolore, della rabbia che le persone potrebbero star trattenendo nei loro corpi potrebbe essere molto vasta.

I rituali possono essere importanti nel viaggio di guarigione dal trauma collettivo per il contesto e il tipo di connessione che sono in grado di creare. Tra l’altro potrebbero avere la funzione di contenere il processo: all’inizio in genere si invoca la presenza del sacro e delle risorse, l’attenzione delle persone presenti converge e ci può essere abbastanza forza e spazio nel campo relazionale per sostenere grazie alla connessione spirituale in modo sicuro l’enorme energia che incontriamo nell’elaborare insieme il trauma collettivo.

Inoltre possono convogliare le nostre capacità di essere comunità e sanare le lacerazioni emozionali tra noi, riparando le relazioni che erano state recise dal trauma collettivo. Esistono ferite che sono collettive nella loro natura che possono essere guarite solo in modo comunitario.

Jerry – Il passaggio dal concetto di trauma personale a quello di trauma collettivo condiviso da famiglie, comunità e culture, ci ha portato decisamente ad un altro stato di consapevolezza. Puoi spiegarci le principali differenze tra il primo di tipo più soggettivo, sul quale esistono già da anni numerosi studi e invece il secondo fenomeno che essendo spesso intergenerazionale e continuo1, è più difficile da identificare?

Laura – Iniziamo dalle differenze tra individuale e collettivo evidenziando anche le loro correlazioni.

Innanzi tutto l’intensità del trauma collettivo è estremamente forte e sopraffacente, per essere incontrata, elaborata e metabolizzata abbiamo senza dubbio bisogno di una maggiore capacità di contenimento e di più risorse.

Ricordo che i primi tempi in cui partecipavo ai processi di elaborazione del trauma collettivo con Thomas Hübl, ero molto in dissociazione, cadevo in stati di sonnolenza con una sensazione di nebbia fitta nella mente. Era così difficile per me mantenere gli occhi aperti.

Poi con il tempo e grazie al lavoro che ho approfondito sui miei traumi individuali sono riuscita via via ad essere più presente dal momento in cui quella nebbia iniziava a diradarsi.

Il trauma soggettivo ha a che fare con le nostre storie personali e può essere sanato attraverso il nostro corpo individuale poichè questa è la sua dimensione. Ad esempio se qualcuno ti ha esercitato una violenza potresti essere accompagnata a liberare parte dell’energia vitale bloccata, agendo con il corpo i movimenti di difesa attiva che non sono riusciti ad esprimersi e completarsi nell’evento traumatico. Ma come posso pensare di fermare una guerra con le mie mani nude?

Hai bisogno di usare altri tipi di tecniche, ad esempio riunire insieme numerose persone per guarire collettivamente.

Jerry – Che idea ti sei fatta rispetto alla difficoltà e le resistenze da parte delle persone che lavorano nelle vecchie istituzioni e strutture, di iniziare ad affrontare temi emergenti come l’oppressione sistemica nella vastità ed intersezionalità del trauma collettivo?

I sistemi presentano una diversa tipologia di sfida. In genere questi vedono la presenza di persone in differenti posizioni di potere, il cui trauma personale si manifesta come insensibilità, essi non riescono a sentire il dolore di altre persone in posizioni più svantaggiate che sono  oppresse, sia dai sistemi odierni, che da quelli in vigore nel passato ai tempi dei loro avi.

Spesso gli stessi sistemi sono strutturati sul trauma senza che se ne abbia una chiara consapevolezza.

Immaginiamo una persona che ha vissuto dei traumi dello sviluppo in età infantile e non se ne è presa cura, entrando in un sistema tenderà nelle relazioni a reagire dalla sofferenza delle vecchie ferite. Questo genera un perpetuarsi di dinamiche traumatiche nelle comunità a cui prende parte.

Un altro modo in cui il trauma si manifesta nei sistemi è la frammentazione, questo significa che il flusso di energia ed informazioni nel sistema è interrotto. Alcuni elementi del sistema potrebbero non essere più in grado di comunicare tra loro o di ricevere feedback riguardo le necessità delle persone, delle forme di vita o dell’ambiente.

Tra gli strumenti adatti ad incontrare collettivamente queste enormi densità di energia traumatica ci sono la presenza e la coerenza. Puoi accennare qualcosa su queste potenti facoltà naturali che potrebbero rinnovare radicalmente le ormai decadenti epistemologie ed ontologie adottate dalle società attualmente egemoniche?

Se sono in grado di prendermi cura degli strati di trauma che porto con me, allora posso divenire una risorsa per la collettività, posso portare presenza e coerenza nei gruppi e nelle situazioni.

Questo comporta il fatto di essere in grado di rimanere a contatto con me stessa negli spazi in cui sento vitalità, in quelli in cui sento scomodità e in quelli in cui non sento me stessa. E imparare a connetterci con la vitalità, la scomodità e l’intorpidimento della dissociazione senza forzare a cambiarli, semplicemente portando loro presenza. Questo è ciò che genera coerenza, non sfuggire da quello che riesco a sentire e allo stesso tempo rispettare le parti di me che non riesco a sentire.

Accettare in questo modo la realtà genera coerenza. Quando molte di noi agiscono insieme in questo modo si crea un campo comune che può generare un senso di sicurezza, questo può facilitare il fatto che il materiale traumatico mantenuto a livello inconscio possa riemergere.

Se il processo è facilitato con delicatezza e gradualità questo materiale può essere metabolizzato dal gruppo. Ma il facilitatore deve essere molto ben sintonizzato in modo da non far emergere più materiale traumatico di quanto il gruppo sia in grado di “digerire”. Questo comporta lunghi tempi di apprendimento dopo aver completato le formazioni per divenire facilitatrici.

Comprendo come la vita abbia fatto per me un particolare training per affrontare questo lavoro, oggi ho 52 anni ed è già da parecchio tempo che sono in questo percorso. Mi auguro veramente che i tempi di apprendimento con gli anni si abbrevino in modo da avere più persone capaci in quest’importante lavoro.

Per finire vorrei dire che molte delle risorse a nostra disposizione sono legate al contributo delle popolazioni indigene su questo pianeta, poichè queste da secoli hanno a che fare con il trauma collettivo. Le danze, i canti, i rituali, le piante medicinali..  Ci sono molte differenti dimensioni di guarigione tutte parte della saggezza indigena. Chi non arriva da quelle esperienze dovrebbe avvicinarcisi con cura e rispetto, dare loro il giusto valore, la giusta retribuzione qualora decidano di condividere le loro conoscenze e il giusto rispetto quando scelgono di mantenere alcuni elementi solo per le comunità native.

Con le comunità indigene che hanno chiara intenzione di condividere la loro saggezza si possono avere bellissimi processi di guarigione. In ambito occidentale è in corso una grande espansione della conoscenza attraverso le neuroscienze, la teoria polivagale e molto altro, che può ampliare la comprensione di come avvengono le guarigioni dal trauma.

Dobbiamo imparare a vedere il trauma e non la persona come problema.

 

A cura di Ivan Sabato e Jerry Diamanti

Grazie alla preziosa collaborazione di Tamara Levav e Melany S. James

Foto di Fer Gomez

1 Usando la parola “continuo” ci riferiamo al cosiddetto “on going trauma”, letteralmente trauma ancora in corso. Questo ha a che vedere spesso con forme di oppressione sistemica invisibilizzate perchè strutturali alle forme di cultura ed economia della modernità. Ad esempio possiamo pensare alla razzializzazione di cui ci parla Laura portando, da professionista, una visione della sua esperienza di donna di origine indigena. Mentre per intenderci, altre forme di on going trauma a livello collettivo potrebbero essere il sessismo, il patriarcato, l’antropocentrismo, l’omotransfobia, l’abilismo, l’etnocentrismo o l’estrattivismo.

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